vita d'antiquari

Marco Riccòmini

Federico Gandolfi Vannini

Empoli a Houston

Stoccolma o Stendhal? Avrei detto più il secondo dei due, del cui romanzo a soggetto “parmigiano” da ragazzo m’innamorai, sognando di vestire i panni di Fabrizio Del Dongo, arrivando pure io prima o poi in ritardo ad un’altra Waterloo... E, invece, avevo capito bene e si trattava proprio della baltica capitale. E, dunque, non la sindrome di Stendhal (ossia lo sdilinquimento dinnanzi al fin troppo bello), che talvolta ci tocca da vicino, ma di Stoccolma (ovvero quando i sequestrati s’innamorano dei loro sequestratori)? Non proprio. Ma, insomma – direte a questo punto –, cosa ci azzecca Stoccolma col Vannini, che è di Firenze? «Mia cugina è svedese...». E ci andava a fare i w-end per conoscere gli usi e i costumi del luogo (ossia per conoscere le sue amiche) e quando i suoi si spazientirono di quel continuo andirivieni decise di rimboccarsi le maniche e di mostrare di che pasta fosse fatto. «Così cominciai ad acquistare nelle aste svedesi per poi rivendere in Italia, facendo i mercatini», fino a quando non conobbe un facoltoso texano che, presolo in simpatia, gli propose di aprire un emporio a Dallas. Sorvolo sui camperos di coccodrillo («belli in rilievo perché ottenuti dalla coda del rettile», precisa) e chissà che fine ha fatto lo Stetson alla Kit Carson, però vent’anni dopo Federico si divide tra Miami e Firenze, proseguendo il commercio di dipinti antichi che, di padre in figlio, si tramanda da ben cinque generazioni. E vendere un dipinto dell’Empoli (ossia Jacopo Chimenti, pittore del Seicento fiorentino) al Museo di Houston (in Texas) rimane sempre una bella soddisfazione.