Marco Riccòmini
La malattia dell’accumulo
«Questo, però, non lo puoi raccontare... Avrò avuto tredici anni quando in un mercatino acquistai per 3.000 Lire una testina in marmo, credo ritraesse Epicuro. Ore più tardi me ne offrirono dieci volte tanto e mio padre, che allora amministrava la villa del marchese Caravita, a fianco della Reggia di Portici, quando lo seppe ne rimase meravigliato, ma io ero cresciuto guardando le raccolte in quella casa, ero già abituato a riconoscere il bello. Tanto era l’amore per l’archeologia che nel 1966 fondai persino un gruppo archeologico napoletano e partecipai pure a qualche scavo. Poi aprii il mio primo negozio a diciott’anni e, adesso, tanto tempo dopo, quando apro le finestre di casa ho la fortuna di affacciarmi sul golfo di Capri, perché vivo sopra la Villa dei papiri a Ercolano, ovvero dove si dice abitasse Lucio Calpurnio Pisone, il cognato di Giulio Cesare, perché qui la storia non si è mai interrotta». «Vede – prosegue – anzi, vedi, Marco, sopra la mia camera da letto c’è una placca in maiolica col motto napoletano “chi sa sa e chi non sa si fotte”, perché in questo mestiere devi conoscere, riconoscere. Nella mia vita mi sono passati tra le mani migliaia di oggetti, alcuni dei quali oggi sono esposti in pubblici musei, come quel busto in biscuit di Maria Carolina Fernanda di Borbone, la duchessa di Berry, che ora sta a Palazzo Reale a Napoli. Ero un giorno in bottega quando entrò un signore distinto che, conversando, si rivelò uno psichiatra. Guardandosi intorno annuì, capendo dal mio sguardo e mormorò: “è clinicamente diagnosticata. Si chiama malattia dell’accumulo”.