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di Marco Riccomini

MITELLI a MOSUL

Gli scempi nel Museo di Mosul immortalati dall’acido mordente dell’arguto Mitelli.

Neppure sapeva dove fosse la Mosul bagnata dal Tigri (e neppure lo avremmo saputo noi, se non fosse successo quel che è successo). Eppure è come se il bolognese Giuseppe Maria Mitelli se lo fosse immaginato come sarebbe andata a finire o, piuttosto, come se ammonisse con lo spettro di quel ch’era già successo (in una stampa della serie dei Proverbi figurati del 1678). Perché da che mondo è mondo i barbari quando han finito con la carne s’accaniscono sull’arte. Lo fanno per sfregio e per cancellare il passato e i suoi demoni, da Alarico a Gengis Khan, fino ai giorni nostri (basti pensare a quei leader asiatici, ad esempio, invocati a gran voce anche da queste parti non molto tempo fa, che rasero al suolo le millenarie vestigia della loro storia, ragione per cui per vedere il più ricco museo d’arte cinese occorre andare a Taipei e non a Pechino). Il mite Mitelli, tuttavia (che come noi sarebbe inorridito al pensiero d’una statua di Fidia presa a mazzate), usava quell’immagine estrema per rammentarci che è più facile « adeguar al piano » che « fabricar Colossi », ossia che è più facile abbattere che costruire (ma andatelo a spiegare a chi dovrebbe demolire gli ecomostri lungo i nostri litorali). Quei vandali in ciabatte cancellando il loro passato si consegnano ad un futuro privo di memoria. Affar loro, direte voi. Sbagliereste, perché quella è anche la nostra storia, ed è la storia di tutti noi. Dello scultore ateniese figlio di Carmide preso a sommo esempio da Mitelli non rimangono che i lacerti trafugati fortunatamente da Thomas Bruce, conte di Elgin. Il problema è che ora non si vede un altro scaltro scozzese all’orizzonte.