Marco Riccomini
A casa di Massimo Listri, insieme a Mario Praz, per incontrare il collezionista che sta oltre il fotografo d'interni, e la sua immagine
«...fummo fatti passare nella sala d’aspetto – narra Praz ne La perla di Baltimora (‘Il Tempo’, 27 giugno 1967) – , un vastissimo locale sotterraneo pieno di gente, ma tra le teste umane spiccavano teste di marmo e di bronzo, copie di busti d’imperatori romani, bronzi della fine dell’Ottocento sovraccarichi di gesti e di svolazzi; e alle pareti quadri e disegni e mobili pseudo-secenteschi: modesto preludio ai locali superiori, moderata ouverture alla grande orchestra che ci colpì in pieno come un assalto di piatti, tromboni e grancasse appena venne il nostro turno di salire».
A stordire il visitatore, appena mette un piede in casa di Massimo Listri, c’è l’accumulo di marmi romani, statue intere o frammenti, pezzi e busti, poggiati su consolle in breccia antica rette da zampe ferine di marmo statuario, oppure abbarbicati su mensole colorate che carezzano le volte arcuate dell’altissima stanza; e poi oggetti d’ogni sorta, dipinti barocchi, denti di narvalo, vasi ellenistici, bassorilievi romani, enormi stampe piranesiane.
Avete presente quei quadri... No, anzi: riprendiamo Praz, che lo dice meglio, anche se scrive dal Maryland e qui, a Firenze, a un passo da Santo Spirito, non potremmo essere più distanti, ma il contrasto fa ancora più effetto: «Chi non ha visto in qualche museo uno di quei quadri di gusto fiammingo che rappresentano un ambiente dalle pareti completamente rivestite di pitture, dai tavoli ingombri d’oggetti, di solito riproducenti sale di collezioni, reali o immaginarie, o scenari per rappresentazioni allegoriche: quadri di Francken, di Bruegel dei velluti, di Hans Jordaens III, dello Zoffany o del nostro Panini? Ambienti dove il formicolio delle forme raggiunge l’allucinazione e il delirio».
Ed io che, dopo il pellegrinaggio ciclico e rituale al palazzetto che a Londra affaccia su Lincoln’s Inn Field, ossia la residenza di Sir John Soane, oggi museo che porta il suo nome, pensavo che più di così non si sarebbe potuta riempire una casa, ho dovuto ricredermi.
Dopotutto, per pescare dagli esempi del fine anglista, Listri, che nasce sulle rive bagnate dall’Arno, è cresciuto col modello (o il mito, verrebbe a questo punto da pensare) de La Tribuna degli Uffizi dipinta attorno al 1776 da Johann Zoffany (1733-1810) o, meglio, messa in posa e ritratta con un pizzico di immaginazione, tanta è la folla che s’accalca attorno a tutte quelle cose riprodotte con accuratezza miniaturistica, in parte imbucatesi, scese in fretta da altre pareti, prestate da altri palazzi (come quando, in una foto di gruppo s’aggrega un attimo prima del click del fotografo anche chi non faceva parte della gita scolastica, della comitiva o della squadra di calcio).
Di primo acchito si resta fulminati dall’insieme, ben calibrato anche nei colori oltre che nei volumi, tanto che l’esempio del pittore tedesco naturalizzato inglese dovrà esser servito al fotografo fiorentino anche per scegliere i pantoni dal tappezziere o le tinte con l’imbianchino. Poi, guardando meglio, quando l’occhio s’abitua alla luce a tratti bassa o artificiale di certe lampade (a petrolio?), poste in testa a vasi Imari dalle basi di bronzo dorato, ci s’accorge che non è solo buon arredo, ma che c’è anche Sostanza (per usare il nome della Trattoria fiorentina che a noi più sta a cuore, detta, tra gli amici, “Il Troia”).
E questo ancor prima di essere saliti al piano di sopra che, anziché ospitare il ristorante Haussner, come nel racconto di Praz («le cui pareti son coperte da cima a fondo di quadri d’ogni genere»), ospita raccolte che, per esser digerite, necessitano di palati e stomaci ancor più fini, come quelle vetrine stipate di preziosi oggetti da Wunderkammer «appoggiati a cavalletti, a busti, a mappamondi, mescolati con monete, conchiglie, astrolabi, scimmie, cani, cannocchiali, compassi», avrebbe assicurato Praz, mentre qui son coralli, avori, coppe ricavate da noci di cocco incise, gusci di nautili, carapaci di testuggini marine e calchi di gesso bianchi e rossi a profusione, a replicare in miniatura un museo universale d’antichità greche e romane, quasi per timore che qualcosa possa essere sfuggito.
«La vista, Dio mio, ne esce malata dal troppo vedere» (ancora Praz). Se esistesse il termine sarebbe la cupio possidendi, morbo tutt’altro che raro e che, spesso, affligge chi patisce il bello. Ignoro se sia trasmissibile, dovrei parlarne col mio medico curante (quello, però, che cura i souci della testa e non i guai del corpo), ma se lo fosse, di sicuro chi visitasse la magione fiorentina del grande fotografo d'interni [qui link al suo sito; ndr] potrebbe rimanerne seriamente contagiato.