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Redazione Gazzetta Antiquaria

Intervista a David Landau

Imprenditore, storico dell’arte, collezionista e filantropo.

Non ripercorrerò qui tutta la sua lustrissima carriera nel mondo della Cultura, i suoi traguardi, le sue esperienze curatoriali e accademiche (Oxford, Courtauld, ad esempio); i premi presi - recentissimo, nel 2021, quello Allegrini - o le responsabilità ricoperte all’interno di fondazioni e musei, principalmente inglesi. Le vorrei subito chiedere: pensando alla sua attività in questo ambito, vale a dire quello storico-artistico, quale bilancio in linea generale ne dà? È soddisfatto?
Non si può essere soddisfatti della vita, in più io non sono soddisfatto di natura e appena finisco una cosa cerco di averne già cominciate altre sei perché il mondo va goduto e va migliorato, se uno può, quindi mi cimento a fare sempre cose diverse, nuove, cose che non ho fatto prima e che mi sembrano giuste da fare o interessanti e stimolanti.


A questo proposito le vorrei subito fare una domanda riguardante Venezia. In che anno è arrivato a qui?
Nel 2009, spinto da una serie di circostanze casuali. Mia moglie, austriaca, per questioni legate al suo lavoro e alla tassazione in Gran Bretagna, voleva trasferirsi altrove (dal Regno Unito, n.d.r.). Io ci vivevo da 31 anni, e insieme abbiamo deciso di andare a vivere a Parigi. Abbiamo passato un anno a cercare casa, e pur vedendone di sontuose, non siamo riusciti a trovarne una che potesse andare bene per le banali esigenze di una famiglia con cinque figli. Nel frattempo, 4 anni prima, avevo preso una casa di vacanza sul Canal Grande a Venezia, dando il via ai lavori che sarebbero dovuti durare 1 anno ma che si sono protratti molto di più dato che si tratta di una casa del Duecento. E così siam venuti qui convinti di continuare a cercare casa a Parigi. Ma arrivati qui non ci siamo mai più mossi.


Negli ultimi 10 anni la sua attenzione i suoi sforzi si sono concentrati sulle Stanze del Vetro, il Centro studi e un progetto dedicato alla Xilografie. Queste tre iniziative vedono come partner la Fondazione Giorgio Cini. Perché ha scelto questa importante realtà veneziana?
Anche qui per una serie di coincidenze. Quando Rosi e io siamo arrivati a Venezia, volevamo fare un bel gesto nei confronti della città e offrimmo la nostra collezione di circa 2000 vetri muranesi del ‘900, la maggior parte di Venini e di Cappellin, al Museo Vetrario di Murano ma l’allora Direttore della Fondazione dei Musei Civici, l’esimio professor Romanelli, la rifiutò per questioni a suo dire logistiche. Poco dopo accettai l’incarico di Presidente della stessa Fondazione, ma durai solo sei mesi data l’impossibilità di lavorare con il sindaco Orsoni. A quel tempo Norman Rosenthal, l’ex segretario della Royal Academy, mi mise in contatto con Pasquale Gagliardi (Segretario Generale della Fondazione Cini dal 2002 al 2020, n.d.r.) con cui fu fin da subito una splendida intesa e che mi suggerì di portare i nostri vetri alla Fondazione Cini. Mia moglie e io non volevamo fare concorrenza al Museo Vetrario e dunque declinammo l’offerta di Gagliardi, ma, visto che non c’erano mostre sul vetro a Venezia, pensammo di organizzarne una o due l’anno in una Kunsthalle dedicata a questo materiale: per questo bisognava individuare uno spazio. Gagliardi ci fece vedere la Scuola della Nautica, abbandonata da anni, effettivamente un posto bellissimo. Chiedemmo ad Annabelle Selldorf, nostra amica, di trasformarlo in uno spazio espositivo, e il tutto fu fatto velocissimamente perché Marino Barovier, anche lui coinvolto nell’impresa, voleva fare al più presto una mostra su Scarpa. Riuscimmo a finire tutto in sei mesi. Il nome “Stanze del Vetro” fu ideato da Gagliardi.

 


"Ad oggi abbiamo fatto 22 mostre nelle “Stanze del vetro” e poi alcune sono andate in altre sedi quindi 37 in totale. Solo a Venezia abbiamo avuto più di un milione e centomila di visitatori. È sempre tutto gratuito alla maniera inglese perché la gente possa tornare e portare gli amici."


 

Quante mostre avete fatto sino ad oggi?
Ad oggi abbiamo fatto 22 mostre nelle “Stanze del Vetro” e poi alcune sono andate in altre sedi quindi 37 in totale. Solo a Venezia abbiamo avuto più di un milione e centomila di visitatori, in tutto più di un milione e mezzo. È sempre tutto gratuito, alla maniera inglese, perché la gente possa tornare e portare gli amici.


Il Centro come funziona?
Il Centro è la parte che il pubblico non vede. Quando arrivai a Venezia ero convinto ci fosse una biblioteca sul vetro, ma quella del Museo Vetrario era molto povera di materiale, e quindi mi dissi che se ne doveva fare una all’interno della Manica Lunga della Cini: oggi siamo a più di 3 mila volumi. Mi resi anche conto che gli archivi delle fornaci muranesi non interessavano a nessuna istituzione. Trovai via web un mercante tedesco che offriva migliaia di disegni di fornace perché acquistava in blocco i fondi delle vecchie fornaci muranesi, per rivenderli. Andai a Stoccarda dove c’era metà dell’archivio della Seguso Vetri D’arte. Mi fece vedere migliaia di disegni e fotografie d’epoca, circa 28 mila in tutto. Glieli feci riportare a Venezia perché non erano stati esportati regolarmente, e glieli comprai; essi crearono il primo nucleo del Centro Studi, che continua ad essere arricchito sia con acquisti che con donazioni (il professor Sarpellon, ad esempio, ci ha dato l’archivio della Salviati, decine di migliaia di documenti). La voce si era sparsa, da allora continuano a offrirmi materiale archivistico, tra cui quello della Vistosi, una fornace che negli anni ’70 ha vinto il Compasso d’Oro, per dirne una. E siccome smantellavano la fabbrica dove il fondo Vistosi languiva, in poche ore siamo corsi in una fredda giornata di febbraio a portare via tutto. Ora abbiamo più di 150 mila tra disegni e fotografie d’epoca e si arriva complessivamente a più di 200 mila documenti. Così come ho comprato l’archivio della Pauly, acquistato dal giudice fallimentare quando questa era fallita.


Quanto del materiale è disponibile per gli studiosi?
Stiamo digitalizzando in continuazione. Alcuni archivi sono completamente digitalizzati, come quello della Seguso Vetri D’arte, almeno per la metà in nostro possesso; l’altra sembra far parte del fallimento, ed è stata notificata dalla Soprintendenza dei beni archivistici. Spero ce la affidino. La Cini ci ha dato, molto generosamente, uno spazio meraviglioso sotto la Manica Lunga, la Sala Messina, inaugurato il 13 maggio scorso con l’allestimento dell’architetto Fabrizio Cantaruzza. Il Centro è ovviamente autonomo e frequentabile.


Le faccio una domanda sul Centro Studi: è frequentato più da studiosi italiani o stranieri?
Abbiamo più studiosi stranieri, ma oggi cominciano finalmente ad interessarsene anche gli italiani. All’inizio i nostri simposi erano frequentati da 10 persone ora siamo a centocinquanta presenze. Ovviamente ci siamo attivati anche con Ca’ Foscari e lo Iuav. Un filone di ricerca che mi sta a cuore è quello del rapporto tra le fabbriche muranesi e l’America, dove si trovavano i maggiori clienti, così che tanti pezzi importantissimi ora sono negli Usa: ne danno prova i prestiti alle nostre mostre. Studiare ad esempio l’archivio della Pauly o della Salviati dà bene questa idea anche su committenti che erano del calibro di Pierpont Morgan, tanto per citarne uno.


Come vede il mercato italiano degli old masters in generale e quello del vetro in particolare?
In generale, non so molto, ma per quanto riguarda il vetro del Novecento ci sono delle strane novità: in questo momento osservo molto fermento perché al Ministero si sono come ‘svegliati’, con risultati in alcuni casi bizzarri di notifiche contro la vendita e l’esportazione di oggetti seriali, cito il caso di una lucertola di Martinuzzi di cui ne avranno forse fatte 200 esemplari. Soprattutto se si considera che quando è stato chiuso il Bauer, storico albergo déco di Venezia, tutto ciò che era l’allestimento storico, inclusi ad esempio i lampadari di 5 metri della Seguso, è stato preso e portato a Parigi.

 


" A 15 anni mia madre mi diede centomila lire per il regalo di compleanno a patto che prendessi qualcosa che mi sarebbe restato per tutta la vita. Andai subito a caccia e a Milano da un antiquario il cui negozio si chiamava La portantina vidi una stampa tedesca, di Heinrich Aldegrever. Cominciai a collezionare stampe, che poi donai a varie istituzioni, tra cui al Museo di Gerusalemme."


 

Quando è nata in lei la sua vena collezionistica?
La mia vena collezionistica inizia prestissimo. Sono arrivato in Italia a 5 anni e sono andato ad abitare a Trieste in casa della nonna e sua sorella, mia prozia, che era stata anche pittrice nonché allieva di Schiele e fu lei ad aprirmi al mondo dell’arte. In casa c’erano molte opere d’arte, tra le quali anche uno Schiele. A 15 anni mia madre mi diede centomila lire per il regalo di compleanno a patto che prendessi qualcosa che mi sarebbe restato per tutta la vita. Andai subito a caccia e a Milano da un antiquario il cui negozio si chiamava La portantina vidi una stampa tedesca, di Heinrich Aldegrever. Cominciai a collezionare stampe, che poi donai a varie istituzioni, tra cui al Museo di Gerusalemme.


Il progetto di xilografie della Cini nasce quindi da questa sua passione?
Lavorai per qualche anno presso l’Ashmolean Museum, scrivendo il catalogo delle xilografie tedesche, facendo di conseguenza uno scambio accademico con la Germania, passando 5 mesi in quel paese, vedendo e raccogliendo tantissimo materiale, anche se poi il catalogo non si si fece mai. Ma cataloghi di riferimento ve ne erano molti. Sulle xilografie italiane prima del 1550 però non c’è nulla, qualche articolo ma nulla di più. Da qui è nata l’idea di un progetto che avesse lo scopo di recuperare e censire il materiale grafico xilografico prodotto in Italia tra l’invenzione della stampa alla fine del Trecento e il 1550, e renderlo disponibile on line, strumento molto utile perché continuamente aggiornabile. A Brema, per esempio, c’è una straordinaria collezione di stampe italiane e lì le mie collaboratrici, Laura Aldovini e Silvia Urbini, hanno trovato molte cose interessanti. Sono previsti anche convegni e una mostra a Pavia. Molti cassoni di mobili nei musei del mondo sono per esempio chiamati a intarsi ma in realtà le loro decorazioni sono stampe incollate e verniciate.


Questa propensione alla collaborazione tra pubblico e privato le viene dal mondo anglosassone?
Certamente. Sono sempre stato coinvolto con le Istituzioni e le realtà museali inglesi in questo senso. Tutti posti dove la funzione dell’istituzione è quella di educare e di attrarre pubblico, dato che le opere sono da considerare del pubblico, essendo state quasi tutte pagate con le loro tasse.


In Italia è semplice il rapporto pubblico privato?
Se paghi tutto tu, è molto semplice. Non è semplice quando si inizia ad interagire con il mondo pubblico. Dopo la mostra di Martinuzzi, dato che il Museo Vetrario di Murano aveva due pezzi suoi belli, che ci aveva prestato, abbiamo deciso con mia moglie di regalare i pezzi di Martinuzzi che avevamo noi, circa una ventina, non grandi ma importanti perché storici. Beh, ci abbiamo impiegato più di un anno…


Il suo operato è stato emulato da altri qui a Venezia?
Non lo so. So che ha scatenato molte gelosie. Dei pettegoli che non mi conoscevano mi hanno spiegato che il Landau aveva un piano diabolico di fare tutte queste mostre del vetro per aumentare il valore della propria collezione e per farne alla fine un enorme affare.

 


"...Venezia può avere un futuro solo se si comporta come faceva nel Settecento: un luogo dove ogni sera ci sono concerti, mostre, teatro ad altissimo livello. Questo attirerebbe svariate centinaia se non migliaia di persone acculturate d’Europa."


 

Che cosa pensa di Venezia sotto il profilo culturale?
Venezia avrebbe bisogno di un grande sindaco, di qualcuno che ami la città e che si occupi di una sua rinascita culturale. Ciò premesso, Venezia può avere un futuro solo se si comporta come faceva nel Settecento: un luogo dove ogni sera ci siano concerti, mostre, teatro ad altissimo livello. Questo attirerebbe svariate centinaia se non migliaia di persone acculturate d’Europa.


Non è che tutti questi comitati privati nel supplire la carenza o l’assenza del Pubblico rende lo Stato ancora più disinteressato?
È assolutamente possibile, ma non si può certo dar la colpa ai benefattori! La cultura cosiddetta attiva dovrebbe essere compito del Comune. E questo genererebbe un tipo di turismo non solo più colto ma più stanziale, meno mordi e fuggi, invece la sera a Venezia non c’è nulla da fare se non andare al ristorante.


Da quando lei è arrivato a Venezia ad oggi, come l’ha vissuta e come la vive?
Non passo molto tempo qui, la mia dimora principale è in Svizzera. Vado anche sovente a Londra dove ho tre dei miei figli, però Venezia è ovviamente la città più bella del mondo ed è il mio grande amore. In questo momento ho un progetto di ristrutturazione di nove edifici al Ghetto che inglobano anche il museo ebraico e le tre prime Sinagoghe cinquecentesche; ho messo insieme 10 milioni e seicentomila euro con il fundraising, e questo coinvolge il lavoro di sole maestranze veneziane.

 

Come ha trovato quest’anno Tefaf?
Beh lo adoro, è come andare in un museo e chiedere il prezzo degli oggetti esposti! E poi imparo tantissimo.


Le dispiace che a Venezia non ci siano antiquari importanti?
Sì, molto. È la conseguenza dell’abbassamento del livello del turismo. Ma non ci sono neppure le grandi gallerie internazionali di arte contemporanea, tipo Gagosian, che puntano a una clientela miliardaria che comunque a Venezia una volta o due l’anno ci viene sempre. Vedo però che qualcosa sta cambiando.


L’ultimo libro che ha letto?
Una specie di biografia romanzata su Thomas Mann, The Magician di Colm Tóibín. Bellissimo.


Legge anche saggistica?
Quasi solo quella. Ho una biblioteca di libri che trattano arte dal 1450 al 1550.


La cultura delle young membership dei musei del mondo anglosassone andrebbe esportata anche qui?
Altroché. Lo sta facendo Schmidt, ma purtroppo andrà via da Firenze.


Un suo progetto futuro?
Venezia illumina il Mondo: i lampadari di piazza San Marco. Sotto le Procuratie Vecchie, ogni 3 volte ci sono i cesendelli ottocenteschi. Ho proposto che per il periodo natalizio, da novembre a fine febbraio, anziché mettere le solite luminarie natalizie, in mezzo a questi archi ci si metta un lampadario disegnato da un artista contemporaneo e realizzato da una fornace muranese per un totale di 12 lampadari. Sperando che questo aiuti le fornaci, e Venezia.