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Marco Riccòmini

L’altro

Ed è proprio il gioco ambiguo a cui giocava Diego, l’altro Giacometti, a fare delle sue creazioni poesie di design senza tempo.

Se nel mezzo dell’allestimento della mostra “Diego, l’altro Giacometti (Milano, Fondazione Luigi Rovati in collaborazione con PLVR Zurigo, a cura di Casimiro Di Crescenzo) un visitatore sbirciasse curioso da un porta socchiusa e l’occhio, tra casse, imballi pluriball e operai indaffarati, gli cascasse sopra una maniglia dalla testa di cane, un topolino, una volpe o una rana in ottone (forse intese a decoro d’un comò), oppure un tavolino da caffè o una snella consolle, cosa capirebbe? Penserebbe, forse, che si stia preparando una mostra sugli etruschi, visto quanto già la Fondazione milanese contiene? O, meglio, sui reperti venuti alla luce da una domus pompeiana? Perché, in fondo, le gambe secche e imprecise di quei mobili, la patina verde antico un po’ consunta del loro bronzo, li fa proprio somigliare a oggetti di scavo, rimasti sepolti per due millenni sotto una spessa coltre di cenere e terra. Se, però, quel visitatore tanto curioso fosse anche un poco paziente, farebbe in tempo a vedere come quegli stessi operai su quei tavolini posizionino con la massima delicatezza un piano in cristallo sul quale riporre una tazzina da caffè. A quel punto l’ignaro visitatore potrebbe rimanere disorientato, cercando invano nella sua memoria esempi di simili coffee-tables nell’arredo al tempo dei romani (dimenticandosi che del caffè ancora non c’era traccia). Ed è proprio il gioco ambiguo a cui giocava Diego (Borgonovo di Stampa, 1902 – Parigi, 1985), l’altro Giacometti, ossia il fratello più schivo, meno celebre e celebrato, di Alberto, a fare delle sue creazioni poesie di design senza tempo.