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Gerardo Moscariello

Il puro spirito dell’Arte: Guido Reni al Prado

Quella del Prado, curata da David García Cueto, è una mostra che ricerca l’accostamento di percorsi d’impianto cronologico a più ampie sezioni di natura tematica imperniate sul tema del corpo nelle sue varie declinazioni.

Guido Reni (1575-1642) è tra gli artisti che già i contemporanei riconobbero come «divin pittore», un redivivo Apelle che — per dirla con Malvasia — «prese un sublime volo alle sfere, e di là su ricavando quelle celesti idee, poté rapportarne alla terra un fare di paradiso». Il celebre biografo bolognese riecheggiava così un topos assai antico: la capacità di pensare il bello ideale, di astrarre le forme; quella stessa miracolosa abilità che Filostrato riconosceva a Fidia e Prassitele, idealmente ascesi all’Olimpo degli Dei per coglierne l’immagine e «riprodurla nella loro arte».

L’evoluzione artistica di Reni fu in effetti un intenso sforzo verso un obiettivo per natura evanescente, inafferrabile per definizione: fissare sulla tela l’essenza delle cose più che la sostanza. La pura bellezza ideale, dunque, ricavata da una lettura ossessiva, affannosa, del dato naturale costantemente rivisto e mediato; l’applicazione, per così dire, di un costrutto mentale, di un filtro cristallino e perfetto, imposto dal pittore alla realtà. Per il «divin Guido» questa inesausta ricerca artistica si traduce, sul piano della pratica e della tecnica, in una progressiva smaterializzazione della pittura, sempre più impalpabile e sfibrata; sempre più ristretta in una gamma tonale che si sostanzia in infinite variazioni di rosa tenue, argento, lievissimi lillà. Una maniera di dipingere che, come osservato dalla critica di secondo Novecento, si muove di pari passo con un singolare «svincolarsi del colore dalla forma», dando vita, nell’artista tardo ed estremo, a brani non-finiti che – oggi forse più che mai – riescono a intercettare la sensibilità dello spettatore contemporaneo.


"Di questa parabola artistica tiene mirabilmente conto il monumentale omaggio tributato dal Museo del Prado a Guido Reni (28 marzo - 9 luglio 2023), primattore bolognese sulla ribalta del Seicento europeo."


Di questa parabola artistica tiene mirabilmente conto il monumentale omaggio tributato dal Museo del Prado a Guido Reni (28 marzo - 9 luglio 2023), primattore bolognese sulla ribalta del Seicento europeo. Anni mirabiles, quelli appena trascorsi, per Guido: tre monografiche culminanti nella rassegna madrilena, preceduta dalla mostra quasi-gemella allo Städel di Francoforte, entrambe anticipate – benché svincolate – dalla più raccolta esposizione romana alla Galleria Borghese. Quella del Prado, curata da David García Cueto, è una mostra che, allineandosi alle più recenti e diffuse tendenze, ricerca l’accostamento di percorsi d’impianto cronologico a più ampie sezioni di natura tematica imperniate sul tema del corpo (e della corporeità) nelle sue varie declinazioni. Di sviluppo lineare-storicistico sono l’incipit e l’explicit, ovvero la sala introduttiva dedicata alla formazione tutta bolognese del pittore, tra gli anni Novanta del Cinquecento e l’anno 1600, e il percorso conclusivo rivolto all’intensa attività tarda del maestro, circa tra il 1638 e il 1642. Sul Leitmotiv di Reni pittore delle idee, la mostra articola una serie di riflessioni di determinante rilievo per la comprensione dell’artista: il rapporto con l’Antico ma anche il complesso tema delle logiche produttive della bottega, delle copie autografe, di quelle tarde, delle derivazioni e delle varianti.

L’avvio della rassegna si colloca a metà tra le due impostazioni, rivelandosi al contempo biografico e sentimentale. In apertura sta – come un magnifico esergo – il tondo allegorico del Louvre con il fraterno abbraccio tra Il Disegno e il Colore (o Il Disegno e la Pittura); un dipinto del Reni maturo, sul 1625 circa, di una materia fattasi argentea, limpidissima, quasi soffiata sulla tela. Un avvio che anticipa al visitatore più esperto un finale che vedrà sciogliersi quell’abbraccio. Recuperando immediatamente le fila della narrazione lineare, Cueto riporta lo spettatore sulle tracce dell’apprendistato bolognese del pittore, tra la prima lezione del fiammingo Denys Calvaert, l’alunnato presso Ludovico Carracci e la fascinazione per la pittura di Veronese, affettuosamente ricordato come il suo «Paolino», filtrato dalle esperienze venete di Annibale Carracci. Tra Bologna e il trasferimento a Roma, cioè attorno al 1600-1601, l’esposizione del Prado non argomenta soltanto l’ineludibile rapporto con Raffaello e l’archeologia classica ma, con efficacia, sviluppa una riflessione sul rapporto con il contemporaneo Caravaggio. Pur non brigandosi di conciliare l’inconciliabile — il bolognese pittore dell’incanto, il lombardo del disincanto — la mostra propone un confronto che chiarisce il modo peculiare in cui Reni guarda il suo principale rivale sulla scena romana. Al Davide e Golia di Caravaggio (Prado) è affiancata una tela di medesimo soggetto, un dipinto poco noto ma eccellente di Reni intorno al 1606, oggi nelle collezioni del Museo Banhof Rolandsek di Remagen. Un manifesto figurativo, quello del bolognese, che dichiara con piena evidenza un interesse per Caravaggio che il pittore tenta, come avrebbe fatto con la Natura, di mediare e correggere. Il «troppo naturale» del Merisi diviene per Reni l’occasione di ricalibrare la composizione, stemperando la sensualità della posa dell’eroe biblico di Caravaggio e spostando la scena nel punto di equilibrio che precede il fendente mortale diretto al collo di Golia. Al violento chiaroscuro del lombardo, che concentra l’attenzione sulla truculenta disarticolazione della testa dello sconfitto, Reni sostituisce un paesaggio plumbeo, crepuscolare, intriso di ricordi squisitamente emiliani; il dipinto di Guido si sarebbe perfettamente confrontato con il Davide e Golia di Orazio Gentileschi (National Gallery of Ireland), caravaggesco infedele ed elegante, che similmente al pittore bolognese fornisce sovente letture rasserenate delle invenzioni del maestro lombardo.


"L’esposizione, pur non affrontando il rapporto tra Reni e gli artisti della sua impropriamente detta «Scuola», sopperisce offrendo in catalogo un denso saggio dedicato all’argomento da Daniele Benati."


Nella grande sezione dedicata alla bellezza del corpo sacro, assume uno spazio rilevante il tema delle variazioni su un medesimo soggetto, un altro dei fil-rouge dell’esposizione. Su una delle pareti più memorabili della mostra, sono riuniti tre San Giovanni Battista (Bologna, Palazzo Bentivoglio; Londra, Dulwich Gallery; Salamanca, Convento de la Purísima), dipinti sulla metà degli anni Trenta; ed è davvero rivelatorio poter osservare da vicino il Precursore del grande retablo di Salamanca, già reputato, non senza esitazioni, possibile opera di Guido da Roberto Longhi (1957) e Alfonso Pérez Sánchez (1965). L’esposizione, pur non affrontando il rapporto tra Reni e gli artisti della sua impropriamente detta «Scuola», sopperisce offrendo in catalogo un denso saggio dedicato all’argomento da Daniele Benati. Lo studioso, peraltro, ha rilanciato sui suoi canali social, a partire da un’intuizione di Richard Spear, l’affascinante e convincente possibilità di rintracciare la mano di Guercino in vari brani del San Girolamo e l’Angelo di Detroit, uno dei dipinti che riempiono il corridoio che culmina con l’abbacinante Assunta del Metropolitan di New York. Sulla committenza e il collezionismo, specie nell’intreccio dei rapporti tra Guido e la Spagna, si aggiungono due saggi di Raffaella Morselli e, in particolare, di Stefano Pierguidi che si riallacciano alle conclusioni del contributo introduttivo di Cueto.

Non mancano, in mostra, mirati confronti tra Reni e la scultura coeva, perfettamente esemplificati da un rapporto di patente dipendenza: un bronzo da un modello di Alessandro Algardi, Zeus che sconfigge i Titani, esposto difronte alla Caduta dei Giganti già in Palazzo Isolani a Bologna. La precoce ricezione algardiana dell’invenzione reniana, diffusasi in Urbe per via grafico-incisoria, illumina altresì l’ammirazione che lo scultore doveva nutrire per il conterraneo. Questa fascinazione è pure evidente dal rapporto puntuale tra il carnefice nel Martirio di Santa Cecilia dipinto da Reni per il cardinale Sfondrato e il boia nella Decollazione di San Paolo realizzata da Algardi per Bologna; secondo Jennifer Montagu, questa ripresa offrì probabilmente a Malvasia l’occasione di riferirsi allo scultore come il «nuovo Guido ne’ marmi». Un ulteriore focus sulla scultura è dedicato alla rarissima produzione plastica di Reni, esemplificata in mostra dalla presenza di una traduzione bronzea dalla perduta Testa di vecchio, detta di Seneca, modellata in terracotta durante il soggiorno romano del pittore. Il ritratto è posto in dialogo, in esatta corrispondenza, con il profilo della figura ammantata di bianco che compare tra la folla al cospetto del Patriarca nella grande pala del Trionfo di Giobbe già in Santa Maria dei Mendicanti a Bologna. Il dipinto, dal primo Ottocento esposto nella cattedrale parigina di Notre-Dame, spicca tra i prestiti più prestigiosi della mostra e si lascia ammirare, come mai prima, in fondo ad un corridoio che simula lo slancio ottico di una navata.


"Lungo il percorso che conduce all’epilogo, la corporeità della pittura di Reni s’assottiglia e, negli anni tardi, al suo posto si manifesta l’assillante ricerca del puro spirito dell’arte: divampa qui il paradosso di quella bellezza ideale che sostanziandosi nel dipinto prova a disincarnarsi."


Fulcro commovente dell’esposizione è la sala che vede accostate le due versioni dell’Atalanta ed Ippomene, come nell’avvio felsineo della mostra itinerante tenutasi tra il 1988 e il 1989. In quel frangente, il restauro della tela del Prado aveva permesso di riconsiderarne la piena autografia a svantaggio del dipinto del Museo di Capodimonte, fino ad allora reputato di più sostenuta qualità. Oggi, la mostra spagnola, pur non negando allo spettatore la possibilità di perdersi nell’esame delle due pitture, le pone in relazione a due marmi antichi, l’Afrodite accovacciata e l’Hypnos dalle collezioni del Prado, sovrapponibili a esempi di statuaria classica che Guido Reni poteva aver visto durante il più che decennale soggiorno romano. La meditazione sull’Antico trasla in pittura attraverso successivi ripensamenti; caratteristica assai tipica del maestro bolognese che, come acutamente osservato da Federico Zeri nel 1989, non cita mai tel quel i riferimenti classici come avrebbe fatto Caravaggio. Nonostante l’intitolazione di quella sezione della mostra — Bodies and Desire: The Sensuality of the Nude — chi scrive non coglie in ciò alcun erotismo; piuttosto, come ebbe a dire Cesare Brandi, una sublimazione totale della sensualità che è espressione di un gusto per l’«idillio classico» e non già per la «tenzone sportiva».

Lungo il percorso che conduce all’epilogo, la corporeità della pittura di Reni s’assottiglia e, negli anni tardi, al suo posto si manifesta l’assillante ricerca del puro spirito dell’arte: divampa qui il paradosso di quella bellezza ideale che sostanziandosi nel dipinto prova a disincarnarsi. Manifestazione altissima ed estrema del rovello reniano è l’opera di congedo, l’Anima beata dei Musei Capitolini. Una figura angelica, fatta di pittura filamentosa e guizzante che par dipinta — per parafrasare il Cavalier d’Arpino — proprio dal pennello di un angelo.