di Luca Violo
"Il mondo dell’arte è uno e vasto. Noi dobbiamo conoscerlo nella sua unità e interezza"
Quale peso ha avuto la famiglia sulla sua formazione?
La mia predisposizione alla cultura fonda le sue radici in famiglia, dove mio padre ingegnere ha vissuto una vita per tutti esemplare, da uomo di grande levatura intellettuale, un modo di intendere la vita che mi ha trasmesso e profondamente formata. Da lui ho appreso la rettitudine lombarda, la curiosità nel conoscere, nell’emanciparsi attraverso la cultura, ma il gusto per l’arte come scelta d’elezione giungono da mia madre, discendente di un’antica e illustre famiglia cremonese. Collezionisti d’arte da generazioni, gli ultimi discendenti avevano tuttavia mostrato un particolare interesse per il mondo della musica, al quale mondo sono stata introdotta da una zia pianista a cui devo moltissimo. Studiavo pianoforte otto ore al giorno, partendo da Bach e arrivando a Chopin. È stata lei a farmi comprendere la bellezza essenziale della musica, che riempie la vita ed è fra tutte le arti la forma più completa, che coinvolge corpo e anima in una dimensione unica e speciale; diversamente, le arti figurative sollecitano il cervello e la sfera intellettuale. È quanto adesso cerco di far comprendere ai borsisti della Fondazione Longhi, tutti storici dell’arte, ma non so quanto appassionati alla musica.
Sebbene il suo amore per l’arte sia nato in ambito familiare, quanto sono stati importanti gli anni del liceo classico a Cremona?
Sarei ingrata, parlando della mia educazione culturale, se non affermassi l’importanza che per me hanno rivestito due persone che ho avuto la fortuna di incontrate nei miei studi liceali: il mio professore di filosofia – un torinese mandato al confino a Cremona nel periodo fascista –, e colui che di fatto mi ha iniziata all’arte, ossia Alfredo Puerari, poi designato direttore del Museo Civico di Cremona. Quelli del liceo sono stati anni che mi hanno aiutata moltissimo una volta giunta a Firenze al mio primo anno di Università. Ero già in grado di esercitarmi nelle attribuzioni che solitamente impegnavano gli studenti del terzo e quarto anno: il metodo da me adottato al liceo, di non guardare mai il nome dell’artista se non prima di aver tentato di riconoscerlo, si era dimostrato un valido aiuto.
Come è avvenuto il passaggio di studi da Firenze a Bologna?
Sapevo che Roberto Longhi aveva a Bologna la cattedra di Storia dell’Arte Medievale e Moderna. Decisi allora di lasciare Firenze per seguire i suoi seminari, ma prima di trasferirmi, mi convinsi che sarebbe stato opportuno metterlo al corrente della mia decisione. Fu così che una mattina presi la bicicletta di un’amica e partii per incontrarlo nella sua casa fiorentina a Villa Il Tasso, oggi sede della Fondazione Longhi. Devo dire che mi presentai a lui senza alcun timore reverenziale; fu questo, forse, che gli piacque di me. In autunno iniziai a seguire i suoi corsi, e ciò che fin da subito notai fu che il suo linguaggio corrispondeva esattamente alla sua scrittura: elegante, ricercato e raffinato. Ciò era stupefacente e unico. Per Longhi la storia dell’arte era intimamente legata alla letteratura e da questa era nobilitata. Il suo approccio, l’esposizione e la scrittura, erano pertanto non solo da storico dell’arte ma pure da letterato. Purtroppo, perché in ogni cosa non c’è mai la perfezione assoluta, aveva la brutta abitudine di saltare con frequenza le lezioni. A quel tempo vivevo a Cremona insieme a mio padre rimasto vedovo. La sera per abitudine facevamo tardi giocando a scopone scientifico e la mattina dovevo alzarmi molto presto per prendere il treno per Bologna. Longhi iniziava i suoi seminari alle due del pomeriggio, e io avevo il tempo di fermarmi ora a Modena ora a Parma per visitare i musei, non più di una sala al giorno. Studiavo e prendevo appunti così da memorizzare molti dipinti che per me sono rimasti dei punti di riferimento; poi risalivo sul treno per Bologna e arrivavo all’università, dove spesso Longhi non si presentava. Era una vita faticosa, così un giorno lo affrontai comunicandogli in maniera risoluta, seppur alle prime armi, che non avrei più seguito le sue lezioni. Lui, personaggio riverito e temuto, rimase stupefatto – non so se fu per ciò che gli dissi o per qualche altra ragione, ma da quel giorno prese a fare le sue lezioni con più regolarità.
Quale ricordo conserva da studentessa dei suoi giovanili viaggi alla scoperta e alla conoscenza dell’arte?
Il soggetto della mia tesi era un pittore genovese che aveva lavorato a Cremona nel Seicento. Era perciò fondamentale che io conoscessi la pittura genovese. Pensai così di organizzare le vacanze estive della famiglia sulla Riviera ligure, vicino Genova, dove ogni pomeriggio andavo di chiesa in chiesa per studiare quegli artisti che rientravano nell’ambito della mia tesi. Ma ciò non mi bastava, e così trascorrevo il resto dell’anno viaggiando per la Lombardia per affinare i miei studi.
Quali sono stati i suoi compagni di studi che si sono poi distinti nell’ambito della scuola longhiana?
Carlo Volpe.
Quali sono stati i più grandi allievi di Roberto Longhi?
Senza dubbio alcuno, Francesco Arcangeli e Carlo Volpe.
Come ricorda la personalità di Roberto Longhi?
Per me è stato qualcosa di eccelso. Essere accettata come sua allieva è stato un privilegio unico e prezioso, qualcosa di grande. So come insegnante di essermi portata dietro tanto della sua vita d’arte. Dai miei scolari ho preteso preteso preteso, ma se si vuol davvero conoscere l’arte non si può essere indulgenti. Questa è la scuola longhiana. Ma al di là del mio grandissimo affetto per Longhi, riconosco che non era una persona facile. Nei rapporti personali, ma sempre con chi teneva in considerazione, era un uomo tranquillo, ma di carattere inflessibile. Nella polemica, sempre fatta con sagacia e ironia, era feroce, capace di ferire mortalmente chi ne era fatto oggetto, senza il pur che minimo riguardo, senza retrattivi pentimenti, anche a costo di giocarsi un’amicizia. Era qualcosa che andava oltre ogni ragionevolezza e, se non fosse stato Longhi, educazione.
Cosa significa essere longhiani?
Privilegiare l’occhio innanzitutto. Anteporre alle biblioteche i musei. Anteporre alle fotografie la visione diretta delle opere. È questo il punto di partenza. Con Longhi ancora in vita non sono mancati contrasti con quegli storici che, nell’analisi di un’opera, ritenevano prioritario partire dall’ambiente culturale. Il metodo longhiano era assolutamente antitetico alla scuola di Giulio Carlo Argan che, diversamente, professava un approccio contestuale. Se sei un longhiano parti dall’opera e questa ti racconterà anche il suo contesto. La sua visione non era mero formalismo.
Quanto è stata importante per Longhi Anna Banti,?
Una donna che ho ammirato moltissimo. Anna Banti aveva conosciuto Roberto Longhi nel 1913, negli anni del liceo Visconti di Roma, dove Longhi giovanissimo insegnava. Da allieva divenne poi sua moglie nel 1924. Alla morte di Longhi, nei quindici anni che gli è sopravvissuta, ossia dal 1970 al 1985, ha avuto un ruolo fondamentale nell’avviare e mantenere viva e vitale la Fondazione da lei istituita nel 1971 per volontà testamentaria di Longhi, che donava la sua biblioteca, fototeca e collezione di opere d’arte a “vantaggio delle giovani generazioni”. Per dedicarsi con passione e dedizione alla Fondazione, in quella casa che avevano condiviso sin dal 1939, era venuta meno al suo lavoro di scrittrice. Ha tenuto duro nonostante le difficoltà per amore di suo marito, del nostro maestro. Dopo la morte di Francesco Arcangeli e di Carlo Volpe, ha pensato che solo io, come sua allieva, potessi mantenere viva la Fondazione. È un compito gravoso, che tuttora cerco di assolvere.
Come ha proceduto negli anni la Fondazione?
Mantenendo le sue specificità che sono insite nel metodo longhiano, così come è richiesto ai nostri borsisti. Un metodo che consiste nell’educare l’occhio, anche attraverso le immagini della ricchissima e scelta fototeca; a riconoscere gli artisti secondo una prassi oramai affermatasi, come ho fatto io da insegnante. Una metodologia che negli anni è stata sommersa da altre con orientamenti opposti, che però non hanno avuto eguali risultati. Rispetto ai suoi esordi oggi la Fondazione si fonda su una piattaforma più strutturata, ma ciò che qui più conta è l’ambiente, la percezione dell’importanza che riveste questo luogo, questa casa, che ti fa comprendere il livello intellettuale e finanche sociale al quale devi aspirare.
L’Istituto di Storia dell’Arte Medievale e Moderna di Firenze ha accolto Roberto Longhi nel 1949, ed ha significato, nei suoi ormai andati anni di vita, la sede di un metodo. Cosa ha rappresentato questo Istituto a livello internazionale?
L’Istituto è nato nel 1949, quando Longhi fu chiamato dall’Università di Firenze. Occorre, tuttavia, ricordare che il magistero di Longhi si era già manifestato nel 1936 a Bologna, e aveva già dato origine a una valida scuola. Bologna e Firenze sono state di conseguenza l’asse portante della storiografia italiana, che si riallacciava pertanto a una nostra tradizione secolare di connoisseurship, con il pregio e il vantaggio di un’apertura cosmopolita. Era in sintesi l’unica scuola di grande respiro. Studiare con Longhi significava avere una visione e un metodo adeguati alla situazione internazionale e ciò, in un ambiente accademico molto chiuso come quello italiano, era una carta vincente.
L’eredità longhiana è quella di esser riuscito a far vedere ciò che prima si guardava?
Ne sono profondamente convinta. Per conoscere uno storico deve saper “vedere”, e non il contrario. Non a caso l’occhio è quello che ha fatto nascere la scienza moderna alla fine del Cinquecento; è l’organo più importante per acquisire la realtà; è quello che ci trasmette il messaggio delle opere figurative. Nel nostro mestiere è fondamentale educare l’occhio l’occhio l’occhio! Non finirò mai di ribadirlo! Un giorno, ricordo che mi presentai in ritardo a un mio seminario. Entrando esclamai: “Basta andare in biblioteca!”. Vidi i miei scolari trasecolare, avranno pensato: “La professoressa è impazzita”; poi aggiunsi: “Nessuno di voi frequenta a sufficienza i musei!” – un pensiero che poi ho scoperto aveva già scritto Giovanni Morelli. Se uno studente si occupa di letteratura è giusto e prioritario che frequenti le biblioteche, ma se vuole diventare uno storico dell’arte e trattare le arti figurative, non può, in alcun modo, fare a meno del contatto diretto con le opere, che si ha solo frequentando i musei, le chiese, le collezioni d’arte private e pubbliche. Non v’è dubbio, e qui di nuovo lo affermo, che l’oggetto dei nostri studi siano le opere. Alla costruzione del contesto e alla critica relativa si deve giungere solo in un secondo tempo, poiché l’acquisizione non può che avvenire prioritariamente attraverso l’occhio, e quindi dall’opera; poi seguono la filologia, la storiografia, la critica. Occorre altresì incoraggiare gli studenti a conoscere il più possibile altri generi e oggetti che non siano esclusivamente le arti cosiddette maggiori, come il mobile, del quale uno storico dell’arte dovrebbe essere in grado di dare una valutazione, una definizione stilistica e temporale, capire in quale epoca si colloca. Il mobile si lega all’architettura quasi fosse una discendenza diretta, e pertanto è fondamentale, ma in pochi lo studiano. È un peccato che da parte di molti storici dell’arte non sia tenuto in sufficiente considerazione. Io me ne sono occupata nel lontano 1966, e ho redatto un piccolo, ma credo esaustivo, manuale su Gli stili in Italia. Il mondo dell’arte è uno e vasto. Noi dobbiamo conoscerlo nella sua unità e interezza.
Rispetto al metodo longhiano come giudica l’affermarsi di nuove metodologie di cultura anglosassone che prediligono l’approccio documentario?
In Fondazione borsisti inglesi o americani trovano difficoltà nell’esercizio attributivo, e questo desta loro stupore. La scuola da cui provengono è in gran parte suddivisa in ambiti temporali rigorosamente circoscritti, soltanto all’interno dei quali hanno un’approfondita conoscenza. Ciò accade perché vengono da una formazione, che come lei dice, predilige l’aspetto documentario. Il loro compito sarebbe quello di uscire, viaggiare, andare per musei e chiese, collezioni private e pubbliche, così da allenare il loro occhio attraverso una visione diretta dell’opera e dell’artista. Al contrario insistono con accanimento a non distaccarsi dall’archivio, quasi fosse il sancta sanctorum di tutta la conoscenza. È certo che, arrivando alla Fondazione Longhi, e non arrivandovi casualmente, io li inviti a frequentarla e a viverla, perché il solo vagare per queste stanze è già un arricchimento, un intuire cosa sia il vero sapere. Consultare la biblioteca è indubbiamente importante, altrimenti la Fondazione non avrebbe ragione di esistere, ma ciò che non comprendono, è che da qui non devono partire, ma tornare. Ci sono studenti che sanno venir fuori con discernimento da questa impasse e formulare un loro metodo, mentre altri vi cadono fatalmente dentro e non ne escono più.
Quale era l’opinione di Roberto Longhi su Bernard Berenson?
Bernard Berenson viveva dal 1907 a Villa I Tatti, sulle colline di Settignano vicino Firenze. I primi contatti di Longhi con lo storico dell’arte americano iniziarono nel 1912, quando, appena ventiduenne, si propose come traduttore del suo libro: The Italian Painters of the Renaissance. Di lui apprezzava molto la lettura formale che Longhi definiva come “decorativa”, consistente in una scrittura non di contenuti ma di “valori formali”, tanto da fargli dichiarare in un saggio giovanile: “Io sono berensoniano”. Berenson era l’anello di congiunzione con la miglior tradizione storico-artistica, e aveva un tono e un passo assolutamente internazionali.
Come erano improntati i rapporti fra Longhi e il mondo antiquariale e collezionistico?
Su questo fronte di lui si è molto criticato, forse per invidia, forse per il suo essere ricercato e corteggiato sia da antiquari che da collezionisti. Il rapporto con l’antiquariato, e quindi col mercato dell’arte, era all’epoca di Longhi come è oggi: una questione puramente etica. Tutto dipende da noi storici, dal nostro essere o non essere onesti; dal nostro essere o non essere disposti ad attribuzioni fasulle, richieste come fossero ordinazioni. Se si opera con scrupolo, correttezza e preparazione, si può offrire al mondo antiquariale un corredo tecnico e culturale che lo nutre, lo arricchisce, e gli dà un maggior spessore.
Quale è stato il suo rapporto con Federico Zeri, e quanto la sua ricerca da geniale quanto solitario fuoriclasse ha dato rilevanza e originalità alla storia dell’arte italiana?
Un rapporto reciproco di grande amicizia e stima, durato tutta una vita e iniziato da giovanissimi a Firenze, sebbene egli fosse di qualche anno più grande di me. Finita la guerra, già laureato a Roma con Pietro Toesca – lo stesso eminente professore col quale molti anni prima, ossia nel 1911, si era laureato a Torino Roberto Longhi – Zeri arrivò a Firenze per conoscere il maestro. Fra i due, un accademico dal carattere fortissimo e carismatico e un allievo dalla personalità non meno forte e polemica, vi fu spesso una sana competizione. Con Zeri ho condiviso, per un breve ma intenso tratto di tempo, il lungo cammino della conoscenza della storia dell’arte, che nel suo caso – fattasi ad un certo punto della sua carriera autonoma – era divenuta amplissima, estesa a tutta l’arte italiana. I suoi contributi, in particolare fino al Cinquecento, sono stati e continuano ad essere fondamentali, coprendo un campo vastissimo, in prevalenza quello dell’Italia Centrale: dal Lazio alle Marche non v’era fatto o artista che egli non conoscesse direttamente. Non ha insegnato sistematicamente, forse per i suoi difficili rapporti col mondo accademico e per le sue assidue frequentazioni con le maggiori Istituzioni americane, con le quali ha intensamente collaborato. Tuttavia, dopo la sua morte nel 1998, ha lasciato all’Università di Bologna un’importante patrimonio, che oltre alla Villa di Mentana con il suo parco, comprende la collezione di epigrafi romane, la biblioteca d’arte con 85.000 volumi, e la fototeca con 290.000 fotografie, iniziata negli anni Quaranta e pensata nel segno dei sui maestri: Toesca, Berenson, Longhi.
Dopo cinquant’anni d’insegnamento, chiusa la prestigiosa facoltà di Firenze, come giudica il mondo universitario odierno e la formazione degli studenti alla storia dell’arte?
Si scrive come di un mondo allo sfascio, ed è la verità. Da tempo l’Università è decisamente decaduta e con essa il livello degli studenti che vi vengono formati. Se ben analizziamo la questione, è altresì responsabilità di chi assegna le cattedre senza guardare al grado di preparazione degli aspiranti docenti. Non è il metodo meritocratico ad avere la meglio, ma come ovunque accade in Italia, quello clientelare. Se i professori facessero il loro mestiere al meglio, non vi sarebbero i problemi strutturali che oggi l’Università denuncia. Senza dubbio, dobbiamo tener presente anche le difficoltà legate ai fondi che di governo in governo sono sempre più scarsi, e non permettono di realizzare al meglio i programmi. Ma la questione più urgente è che l’Università, che come compito precipuo avrebbe quello di formare e consegnare alla società dei professionisti all’altezza del loro compito, non riesca a raggiungere l’obiettivo primario del reale assorbimento dei suoi laureati nel tessuto lavorativo, e ciò dovuto anche ad uno Stato totalmente immobile. Uno Stato che per noi storici dell’arte, insieme alle altre istituzioni pubbliche, è il maggior interlocutore. Pertanto, è necessario cercare nel privato, ad esempio nell’ambito del mercato degli antiquari o delle case d’asta, come ho sempre invitato a fare ai miei più bravi scolari, a quelli che hanno l’occhio per questo mestiere, le attitudini e l’interesse.
Cosa pensa sulle norme di tutela delle opere e del patrimonio artistico italiano?
Credo sia giusto che le opere importanti e di livello nazionale non debbano uscire dall’Italia, sia che si parli di Europa che del resto mondo, poiché il nostro Paese possiede, per varietà e stratificazione nei secoli, un patrimonio unico. Dobbiamo conservare ciò che è eredità indissolubile della memoria italiana, ma le opere d’arte non altrettanto significative dovrebbero poter circolare liberamente. Bensì vincoli legislativi penalizzanti l’arte e l’antiquariato – rispetto ad un mercato non più ristretto ai confini europei, ma globalizzato al pianeta – creano una impasse, e non sono di alcuna utilità alla salvaguardia del patrimonio artistico. Si deve convenire che l’arte italiana è nel mondo tanto celebrata e ammirata, perché nei secoli XVIII e XIX sono usciti indebitamente dal nostro Paese opere straordinarie, che oggi si trovano nelle collezioni permanenti della National Gallery di Londra, del Louvre di Parigi, e di tanti tanti musei statunitensi. Tuttavia, quasi per ironia, ciò ha certamente giovato alla conoscenza dell’arte italiana, e dell’Italia quale luogo “ideale” della cultura e della bellezza, come pensavano i viaggiatori del Grand Tour nel Settecento e nell’Ottocento. Peccato che lo Stato non l’abbia ancora capito, ammesso che mai lo capirà. Ogni nuovo Ministro dei Beni Culturali parte con grande clamore, ma finisce sempre allo stesso modo: il nulla totale, salvo qualche rinfrescatina.
Una politica della tutela troppo aggressiva quali conseguenze può generare?
Nell’irrigidirsi delle posizioni chi resta danneggiato è indubbiamente il mercato. La notifica deve avvenire in assoluta trasparenza tra antiquari e sovrintendenze, e tutelare quelle opere che, per il loro valore esemplare, costituiscono il patrimonio nazionale. Tuttavia, negli anni il mercato ha dimostrato quanto potrebbe essere un fattore di crescita sia economica sia culturale se solo venisse lasciato operare.
Attraverso la sua esperienza, dagli anni Cinquanta ad oggi, come ha visto mutare il gusto collezionistico e l’arredo?
Il grande lancio del Seicento lo dobbiamo senza dubbio a Roberto Longhi, che non a caso aveva esordito giovanissimo con una tesi sul Caravaggio, e che nel 1951, a Milano, aveva allestito la celeberrima mostra di Caravaggio e i caravaggeschi, di cui come laureata di primo pelo mi onoro di aver curato le schede. Alla mostra, seguì poi nel ’52 il volume monografico di Longhi dedicato al grande artista lombardo. Un genio di lungimiranza nel campo dell’arredo è stata Nella Longari, quando, prima del secondo dopoguerra, chiamata ad arredare le case della ricca borghesia industriale milanese, che fino ad allora aveva prediletto lo stile elegante del Settecento veneziano, dette una svolta epocale introducendo mobili di Alta Epoca, che nella loro forma essenziale e lineare erano ideali per inserire con maggior equilibrio e armonia dipinti e sculture: dai primitivi ai moderni fino ai pittori astratti. Nella è stata capace di impostare un nuovo gusto che da Milano ha percorso tutta l’Italia. Ho avuto il piacere di conoscerla molto bene, e posso affermare che era una donna e un’antiquaria di primissima qualità, autrice non solo di un cambiamento del gusto, ma anche dell’ampliamento del mercato oltre il XVIII secolo. Gli studi fondamentali di Alvar Gonzàlez-Palacios sono stati poi determinanti nel valorizzare i “mobili da palazzo”, come le consolles dorate romane del Seicento, i vertiginosi stipi napoletani della stessa epoca, i sublimi artifici ebanistici di Pietro Piffetti nel Settecento a Torino, e la manifattura granducale fiorentina. Oltre ciò, è colui che è riuscito a porre in giusta evidenza il settore dei mobili e delle arti applicate, ingiustamente considerati minori. Quanto alla situazione odierna, è giunto il momento di riavvicinare i giovani al piacere dell’antico, semmai allestendo, come ho più volte consigliato, quale esempio nell’ambito delle mostre antiquarie, un interno concepito da un grande architetto. Lo stesso Le Courbusier collocando un trumeau veneziano su una pedana, aveva trasformato un mobile in un oggetto da osservare ed ammirare. Attualmente il gusto è sempre più indirizzato verso una contaminazione tra antico e moderno, che personalmente non trovo né spiacevole né inadeguata come lo è per alcuni, anzi trovo sia da tener ben presente in occasione di eventi antiquari. I tempi cambiano e tutti noi dobbiamo avere le antenne ben dritte.
Come vede l’affermarsi della scultura in questi ultimi anni?
Nell’ambito dell’Università si è compreso che la scultura è un genere trascurato, forse perché più difficile da avvicinare rispetto alla pittura, che ha una grande tradizione storica. Se pensiamo a Luigi Lanzi e alla sua poderosa Storia pittorica della Italia, iniziata nel 1795, e ripubblicata ampliata fino al 1809, troviamo che della scultura – come del resto evidenzia lo stesso titolo – non v’è il minimo accenno. È importante che in questi ultimi, anni attraverso gli studiosi, le esposizioni e il mercato antiquariale, nonché il raffinato collezionismo, sia cresciuto il livello di interesse intorno alla scultura, affinché questa giunga ad occupare il posto che merita.
Dopo aver dedicato una vita all’arte, chi le dà la forza di spingersi ancora avanti nello studio e nella ricerca?
Mi diverto ancora moltissimo, e l’intensità che avevo da giovane di immergermi totalmente nello studio e nella conoscenza della storia dell’arte nel tempo è rimasta immutata, se non addirittura cresciuta, sebbene la mia passione per l’arte nasca prima come collezionista che come storica, forse per tradizione familiare. Ricordo che da piccola facevo raccolta di chiavi antiche, e ogni volta che mia nonna materna saliva in soffitta le correvo dietro, nella speranza di trovare qualcosa di importante, da aggiungere alla mia collezione di oggetti. E se nel cercare fra scatole e polverosi bauli saltava inaspettatamente fuori una cornice, all’istante le chiedevo: “È antica?”, e lei mi rispondeva: “È noiosa e vecchia!”, ed io: “Allora è mia!”.
Di tutte le importanti mostre da lei curate, quale ricorda con maggior emozione?
Per le novità che presentava e le aperture che offriva penso sia stata quella del Seicento fiorentino, di cui vado particolarmente orgogliosa e alla quale sono intimamente legata.