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Marco Riccòmini

[Mein] Gott

L’unico Gott che finora si è visto e che si poteva toccare era quello nello stand dei Brun ad AMART Milano

Mein Gott, muss das sein? (che, dal tedesco, suona più o meno come: «Santo Cielo, dev’essere così?»). Come sarebbe «così come?», potreste chiedervi. Santi a parte e pure quello (o quelli, chissà) che gli stanno sopra (il tedesco Gott sta per «Dio»), l’unico Gott che finora si è visto e che si poteva toccare (sebbene neppure lui fosse in carne ed ossa) era quello nello stand dei Brun ad AMART Milano, c’è poco da girarci attorno. Anzi, l’invito è proprio quello di girarci attorno, visto che la base su cui poggia, grazie a una maniglia, ruota su se stessa, consentendo al visitatore d’ammirare la fanciulla che scherza coi suoi lattei cagnolini da ogni possibile angolazione. «E molto altro ancora», come si legge sul profilo social di certuni, preoccupati d’esser etichettati come una cosa sola (“soldato” o “parrucchiere”, per dire). Ad esempio, quella raccolta di Mukhalinga, luccicanti teste indiane in ottone da Ethnoarte – che non ho resistito dal non postare su Instagram – o quel rosone in pietra tenera delle Fiandre chez i Cesati (che farei murare in corrispondenza d’una finestra, così da poter guardare «il mondo da [quell’] oblò a testa in giù», fingendo d’essere a Bruges). E, per chi non ne avesse avuto abbastanza, c’era anche MOG, acronimo (un terzo italiano, due terzi inglese) che sta per “Milano Open Galleries” come se in tutte le “Galleries” la lingua di Chaucer fosse di casa. Perché, se lo fosse, si sorriderebbe, giacché l’acronimo “MOG”, come ben sanno gli amanti del gospel sta, tra le altre cose, anche per Man of God («Uomo di Dio»), per tornare da dove siamo partiti.