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Marco Riccòmini

Il cugino Pons

Poteva trarre spunto dall’allestimento di quell’inglese, di cui i giornali lodavano l’«economia espressiva che sfiora il ritegno»

Dopo l’irta salita da piazza Venezia aveva il fiato corto, e gli anni – una sessantina, anche se tutti gliene davano di più – si facevano sentire. Ma Pons, inviato dallo Stato francese a Roma per diventare un grande musicista, si era invece immerso nel mondo dell’antiquariato, e per nessuna ragione si sarebbe perso l’esposizione dei marmi Torlonia (Honoré de Balzac, Le cousin Pons, 1847). E, poi, da buon collezionista (la sua raccolta contava ben 1907 pezzi), dotato di «jambes du cerf, temps des flâneurs et patience de l’israélite» (ossia di tempo e di pazienza), moriva dalla voglia di vedere quel tesoro. Pezzi come quelli, forse, non li avrebbe mai trovati, ma poteva trarre spunto dall’allestimento di quell’inglese, di cui i giornali lodavano l’«economia espressiva che sfiora il ritegno». Pensava già di far sparire i tappeti Aubusson e rimuovere il parquet del suo appartamento Haussmannien per sostituirlo con “mattoni 12×25 di argilla lavorata a mano”, così prossimi, nel loro «minimalismo intelligente, con forte connotazione culturale», a quelle piastrelle in klinker marron foncé che rivestivano i palazzi nelle periferie delle grandi città italiane: «chic!». E – già che c’era – anche di ridipingere le pareti: «rosso pompeiano, marrone, celeste “aria”, giallo oro e verde». Perché chiunque, visitando la sua collezione, potesse evocare il «connubio tanto equilibrato tra architettura e arte». Uscendo da Villa Caffarelli ebbe la sensazione d’essersi scordato qualcosa quando – abbagliato dal barbaglìo del sole contro uno stipite di marmo – si ricordò: «la soda caustica!».