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Marco Riccòmini

Il nuovo Caravaggio

Fare i bagagli per cosa, si domandava accarezzandosi la barba, mentre fuori era ripreso a piovigginare. Essere i primi a battezzare quel quadro, strombazzando la notizia ai quotidiani, come un imbonitore ad una fiera di paese?

Era una giornata brumosa di inizio aprile, di quelle in cui neanche il vecchio Mackintosh di Cordings gli avrebbe risparmiato qualche goccia di pioggia sul collo. Ancora prima di finire il caffè, poi, una telefonata dal continente gli aveva guastato l’umore. ‘Freddie’ Mason Perkins era tornato alla carica con quella storia del Caravaggio che, a suo dire, Pico Cellini aveva scovato a Napoli presso un tale Klain. «Nein», gli aveva fatto verso Berenson, dall’altro capo del filo. Fiutava la truffa, come quei due “mammozzi” fabbricati a Roma che quel balordo di John Marshall era riuscito a rifilare al Metropolitan Museum di New York come capolavori etruschi. Una volta svelato l’inganno, la curatrice del Museo si era arrampicata sugli specchi per difendere la propria buona fede, ma ne era uscita con le ossa rotte. Che ci vada Cellini sui giornali o quello Zeri, che ci prendeva gusto a frequentare salotti, ripeteva tra sé e sé mentre rigirava tra le mani la fotografia in bianco e nero di quel quadro. Fare i bagagli per cosa, si domandava accarezzandosi la barba, mentre fuori era ripreso a piovigginare. Essere i primi a battezzare quel quadro, strombazzando la notizia ai quotidiani, come un imbonitore ad una fiera di paese? Mettersi in posa per i fotografi, offrendo il lato migliore, dopo essersi aggiustati la cravatta (e, poi, qual era il suo lato migliore, il destro o il sinistro?)? Affrettarsi ad alzare la mano per primo, quando aveva capito da tempo che sarà solo alla fine che si faranno i conti? «Nein», si era risposto, sorridendo.