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Marco Riccòmini

Alberto Subert

La sua predilezione, eclettica e così poco peninsulare, per strumenti scientifici, sfere armillari e globi, era il risultato del filtro di quattro generazioni di antiquari

Se penso ad Alberto – gli occhi vispi e il sorriso un po’ sornione sotto i baffi ben curati – lo associo nel ricordo a quel Monsieur Hercule Poirot, reso celebre dalla fortunata serie ideata da Agatha Christie. Sarà per via dei suoi modi misurati e della sua compassata eleganza anglosassone (sebbene l’investigatore fosse belga) oltre, naturalmente, per via di quei suoi fini mustacchi, così démodé e anche mitteleuropäisch (non li portava così anche il giovane Francesco Giuseppe?). Dopotutto, non deve sorprendere, considerando che Alberto era di lontana origine polacca, e il cognome è diffuso nell’“Europa di Mezzo” nelle varie grafie di Subert, Schubert (come il compositore viennese Franz Peter) o Shubert (come il noto teatro di Broadway). La sua predilezione, eclettica e così poco peninsulare, per strumenti scientifici, sfere armillari e globi, era in fondo il risultato del filtro di quattro generazioni di antiquari, vissuti tra Trieste, Vienna e Milano, con vetrine in Galleria Vittorio Emanuele II ma anche nella Bellagio della Belle Époque, dove mi figuro il suo avo Rodolfo Subert (1873–1958), in paglietta e completo di lino bianco, uscire dal Casinò guardandosi attorno con fare circospetto stringendo un pacchetto sottobraccio... «If I had but the pen of a Balzac! I would depict this scene» (se solo avessi la penna di Balzac, descriverei questa scena; da Murder on the Orient Express).