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Marco Riccòmini

Sweet and Sour

«Mangiamo dolci, parliamo dolcemente», recita un adagio turco. Non dimentichiamocene.

L’inglese Sweet and Sour si tradurrebbe letteralmente in «dolce e salato», e in cucina sta per «agrodolce» (dal francese aigre-doux). Indica la maniera di cucinare con aceto e zucchero alcune vivande dall’aroma ‘forte’, come in particolare la cacciagione, al fine di ‘addomesticarne’ il sapore. Pare che quello dell’agrodolce fosse il gusto, d’origine orientale, in voga durante il Basso Impero che, col tempo, si è perduto. Tanto che con «agrodolce» nella nostra lingua si intende oggi quell’apparente dolcezza di modi che, in realtà, copre un’avversione. A me, che non ho mai avuto lo Sweet Tooth (letteralmente «il dente dolce», ossia che non sono mai stato «goloso»), i dolci non vanno a genio. Però rispetto chi ne coltiva la passione e conservo un ‘dolce’ ricordo, ad esempio, delle pasticcerie di Trabulus, la Tripoli libanese, dove trovai conforto da una Beirut in macerie. Per questo, quando vedo bistrattati i dolci provo un vago senso di amarezza. Non parlo delle paste o dei babà, stavolta (anzi, dell’ottomana Baklava), bensì del Carlo pittore fiorentino che, seppur inventore di tante immagini divenute col tempo devozionali, non era affatto ‘sdolcinato’. Capita, infatti, che una copietta che traduce ad olio il suo celebre Autoritratto a matita degli Uffizi – con un paio di pince-nez sulla punta del naso – passi in asta a Berlino senza che ne sia stata riconosciuta la derivazione. Minuzia trascurabile, se il cognome del pittore non ci offrisse un’occasione ‘ghiotta’ per attirare l’attenzione. «Mangiamo dolci, parliamo dolcemente», recita un adagio turco. Non dimentichiamocene.