di Francesca Candi
Le circa 180 fotografie conservate nella sezione della Fototeca Zeri dedicata all’archeologia che provengono dall’antiquario Giuseppe Sangiorgi, attivo a Roma dal 1892 al 1928[1], sono per la maggior parte stampe alla gelatina ai sali d’argento. Seguono per quantità aristotipi e stampe all’albumina. In pochissimi casi si tratta di esemplari “firmati”: solo su tre dei documenti rintracciati in Archeologia sono stati infatti rilevati marchi di fotografi. Si tratta di Ferdinando Barsotti (1872-1939) e di Reali, entrambi operanti a Firenze negli anni di attività della galleria. Il primo, insieme al figlio Gino che porta avanti lo studio fino agli anni Sessanta, si dedica soprattutto alla riproduzione di architetture fiorentine[2]. La ditta Reali è invece specializzata nella riproduzione di opere d’arte, per la maggior parte su commissione di collezionisti privati e gallerie antiquarie, ed è attiva dal 1910 al 1940 circa[3].
A parte questi esempi, la rarità di marchi o timbri comune in tutto il materiale Sangiorgi conservato nell’archivio Zeri è probabilmente imputabile al fatto che i fotografi lavorano su commissione dell’antiquario, non commercializzano direttamente le fotografie e non hanno quindi interesse a renderle riconoscibili.
A parte questi esempi, la rarità di marchi o timbri comune in tutto il materiale Sangiorgi conservato nell’archivio Zeri è probabilmente imputabile al fatto che i fotografi lavorano su commissione dell’antiquario, non commercializzano direttamente le fotografie e non hanno quindi interesse a renderle riconoscibili. Quello che però salta agli occhi nella maggior parte di queste stampe, come accade anche per le foto Sangiorgi di pittura o arti decorative[4], è la straordinaria organicità nel trattamento dei versi che riflette l’uniformità di utilizzo di questo materiale. La fotografia è concepita come mezzo di riproduzione della merce e il suo verso come luogo fisico in cui segnalare dati tecnici e riferimenti al prezzo: il risultato è una sorta di archivio del posseduto della galleria, con stampe talvolta realizzate in più copie a disposizione dei clienti interessati all’acquisto[5]. Ad esempio, sul retro della foto Barsotti, collocabile entro i primi decenni del Novecento sulla base di un’analisi tecnico-formale e dei riferimenti biografici del fotografo (figg. 1-2), probabilmente lo stesso Sangiorgi indica l’oggetto riprodotto come una «cista a vaso», riporta le misure e il materiale, bronzo, in cui è realizzata, lo stato di conservazione «sano ed intatto», la datazione, VI sec. a.C., e lo stile «etrusco». In basso a destra compare poi un’iscrizione, «CSSS», che fornisce un esempio del particolare codice – lettere della parola EUCALIPTOS corrispondenti a numeri da uno a dieci – usato dall’antiquario per criptare il prezzo degli oggetti[6]: forse in questo caso, visto il punto interrogativo, si tratta di un prezzo in via di definizione. Completano il verso un disegno della cista e il timbro della galleria.
L’interesse specifico delle fotografie Sangiorgi di Archeologia è dato dalla documentazione di opere d’arte egizie, greche, romane, etrusche e italiche – sculture, erme, busti, rilievi, sarcofagi, bronzi, vasi, specchi – che fornisce un panorama di ciò che viene immesso sul mercato a cavallo tra Otto e Novecento. Questi oggetti sono chiamati a soddisfare le richieste di un collezionismo nuovo, proveniente dal mondo industriale, finanziario e commerciale, soprattutto americano, desideroso di formare raccolte, accrescerle o semplicemente alla ricerca di oggetti di arredamento per le proprie residenze[7]. Tra gli acquirenti di Sangiorgi compaiono anche i grandi musei statunitensi da poco costituiti come il Museum of Fine Arts di Boston, l’Art Institute di Chicago, il Fogg Art Museum di Cambridge e il Metropolitan Museum[8]. Le riproduzioni fotografiche alla gelatina ai sali d’argento di tre specchi etruschi in bronzo oggi conservati a New York testimoniano ad esempio un passaggio presso l’antiquario romano ignoto alla bibliografia (figg. 3-5)[9]. È certo, come dimostrano i numeri di acquisizione consecutivi, che i tre preziosi oggetti entrano nel museo insieme e si può ipotizzare che sia stato proprio Sangiorgi a venderli al Metropolitan, in un unico lotto, nel 1921. Sui versi di due delle tre fotografie (figg. 3-4) sono presenti poi le consuete iscrizioni memorandum relative ai dati essenziali degli oggetti (misure, materiale, prezzo…) e il riferimento alla presenza di una patina sul bronzo che suona come sinonimo di garanzia di antichità[10].
In molte altre note sul retro delle foto di archeologia compaiono assicurazioni di autenticità: talvolta viene dichiarata la provenienza delle opere da siti importanti come Villa Adriana (fig. 13) e collezioni di famiglie prestigiose come, ad esempio, gli Sciarra (fig. 6)[11]; in altri casi compaiono esplicite descrizioni dei rimaneggiamenti subiti, come nel caso di due Consoli «assolutamente antichi» ma con le teste e le mani restaurate (fig. 11).
In realtà, l’esame condotto da studiosi e archeologi ha rilevato come una parte del materiale Sangiorgi “di scavo” potrebbe non essere autentico o frutto di interpolazioni. Ciò non sorprende in anni in cui il mercato è chiamato a soddisfare con ingenti quantità di prodotti una clientela ampia e non in tutti i casi avvertitissima.
In realtà, l’esame condotto da studiosi e archeologi – con gli evidenti limiti di un’analisi condotta su stampe di fine Ottocento e inizio Novecento, in alcuni casi molto rovinate – ha rilevato come una parte del materiale Sangiorgi “di scavo” potrebbe non essere autentico o frutto di interpolazioni[12]. Ciò non sorprende in anni in cui il mercato è chiamato a soddisfare con ingenti quantità di prodotti una clientela ampia e non in tutti i casi avvertitissima. La fabbricazione di pezzi in stile era una pratica promossa in quegli anni da molti antiquari romani che si affidavano a scultori esterni o agli artigiani del proprio laboratorio interno, come Sangiorgi[13]. Il caso del bel sarcofago con Corsa di bighe con amorini, riprodotto da una gelatina ai sali d’argento collocabile entro il 1920 sulla base dell’analisi tecnico-formale, fornisce un esempio interessante di un oggetto che è con ogni probabilità una realizzazione in stile (fig. 7). In questo caso il modello è un sarcofago di epoca adrianea o antonina proveniente dalle catacombe di S. Sebastiano a Roma, già nel cortile del Belvedere e dal 1792 nel museo Pio Clementino dei Palazzi Vaticani (fig. 8).
L’opera appare replicata in maniera del tutto pedissequa nella scelta del soggetto e del nobile materiale, il marmo di Carrara, ma non eguagliato nella qualità[14]. Non si può in realtà escludere che si tratti di una copia antica, forse rinascimentale, dal momento che i pezzi di scavo sono oggetto di rimaneggiamenti, interpolazioni e falsificazioni praticamente in ogni epoca e che il sarcofago si trova nel Belvedere Vaticano fin dal XVI secolo[15].
A differenza delle fotografie di pittura italiana, scultura o natura morta, che Zeri utilizza quotidianamente come materiale di studio e confronto, annotandolo e corredandolo di documenti allegati e perizie, quelle di Archeologia e in particolare le stampe provenienti da Sangiorgi hanno subito, da parte dello storico dell’arte, solo lo scorporamento e l’inserimento nelle sezioni, buste e cartelle della sua fototeca. Rimangono quindi documenti “congelati” all’epoca della realizzazione e dell’utilizzo nella galleria, in alcuni casi poco parlanti, ma di indubbia curiosità. Le gelatine che riproducono un altro sarcofago, questa volta raffigurante Putti vendemmiatori, lo documentano in tre contesti diversi, due volte all’interno della sede della galleria in Palazzo Borghese sotto due caminetti differenti (entrambi in vendita, come attestano i rispettivi prezzi presenti sul verso delle gelatine, figg. 9-10) e una nel cortile (fig. 12). Le riprese, vista la contiguità cronologica delle stampe, sembrano realizzate in uno stretto giro di anni all’inizio del Novecento e forniscono una piccola testimonianza degli splendidi allestimenti della galleria: di una minima porzione del cosiddetto «Jardin de marbres» dove venivano esposti i marmi antichi e l’arredamento da giardino, e dell’interno di Palazzo Borghese dove gli oggetti erano presentati ai possibili acquirenti in un affascinante affastellamento di tipologie e di stili[16].
Note
Pubblicato in "I colori del bianco e del nero. Fotografie storiche nella Fototeca Zeri 1870-1920" edito dalla Fondazione Federico Zeri.