di Daniele Benati
Scelgo di incentrare il mio intervento sull’articolo che Longhi pubblicò nel 1957 sul n. 89 di «Paragone», intitolandolo Annibale, 1584?[1]. Nato come recensione alla mostra dedicata ai Carracci organizzata l’anno prima a Bologna da Cesare Gnudi, è un articolo scritto in gran parte per partito preso e a tratti persino antipatico. Tant’è vero che quando, esponendogli il programma del seminario, ho detto a Massimo Ferretti della mia intenzione di occuparmi proprio di questo saggio, lui ha subito esclamato: «Ah, quello fu brutto!». È infatti risaputo che l’intervento di Longhi costituisce una pagina drammatica nei controversi rapporti con il suo allievo Francesco Arcangeli, il bersaglio che nell’occasione il maestro prende di mira in modo nient’affatto velato. A distanza di tanto tempo mi sembra però che, tralasciando tali ricadute di tipo esistenziale, si possa tornare a leggere quel testo non soltanto per esaminare le attribuzioni proposte e dunque la lettura che Longhi offre del primo percorso di Annibale Carracci, ma soprattutto per riflettere, nella prospettiva di questo seminario, sulle indicazioni di metodo che egli vi fornisce in relazione al problema appunto dell’attribuzione e del giudizio storico che la determina, venendo da essa rafforzato.
In questo modo adempio inoltre a una promessa che feci ormai moltissimi anni fa a Carlo Ginzburg e alla quale, stupidamente ma forse provvidamente, non ho mai tenuto fede. Era stato infatti Ginzburg a chiedermi di scrivere un saggio (lui per la verità pensava a un vero e proprio libro) su come fosse possibile che un quadro come la Vestizione di santa Chiara del Musée des Beaux-Arts di Grenoble (fig. 1), sul quale Longhi aveva ricostruito una fase legata a una data precisa del percorso storico di Annibale Carracci, appunto il 1584, potesse invece rivelarsi per me opera non soltanto di un diverso pittore, di Fra Semplice da Verona, ma anche di quarant’anni posteriore rispetto a quanto dedotto da Longhi attraverso il suo esame. Si trattava dunque di argomentare partitamente le ragioni che stanno alla base delle due diverse ipotesi attributive, in modo da rendere chiari, anche per un lettore non specialista, quei collegamenti che il conoscitore - storico dell’arte «laconico» secondo l’insostituibile definizione di Panofsky[2] - mette rapidamente in opera nell’attimo in cui si pronuncia. La proposta di Ginzburg, in quegli anni molto interessato a Longhi e ai meccanismi logici che presiedono all’attribuzione, mi ringalluzziva; ma conteneva una specie di tranello, giacché un libro scritto per smontare un’attribuzione e proporne un’altra, come la precedente non basata su alcun documento ‘esterno’, avrebbe alla fine fortificato la tesi, già da lui argomentata in svariate occasioni[3], circa l’impossibilità del metodo deduttivo di pervenire a conclusioni definitive.
Per la verità Ginzburg pensava che un simile assunto mi sarebbe riuscito abbastanza facile. Ma, se nel 1986 il nome di Fra Semplice da Verona (al quale, pur conoscendo il quadro di Grenoble, non avevo fino a quel momento mai pensato) mi era subito venuto in mente davanti alla fotografia mostratami lungo le scale dell’Istituto Tedesco di Firenze da Marco Chiarini, che stava allora redigendo il catalogo del museo, ripercorrere passo passo le associazioni che si erano rapidamente formate nella mia testa portandomi a quella convinzione mi parve ben presto impossibile, oltre che, in fondo, inutile; tanto che, dopo alcuni ulteriori incontri (nella casa bolognese di Carlo, ma anche nel corso di una cena a Los Angeles) e dopo qualche tentativo che non mi soddisfece, lasciai mestamente perdere.
Prima di esaminare l’articolo del 1957, è forse opportuno ricordare le occasioni in cui Longhi si era in precedenza occupato di Annibale Carracci. I passi da considerare sono assai pochi. Del resto era stato lo stesso studioso ad ammettere, nei Momenti della pittura bolognese del 1934, che «intendere i Carracci, mi avvedo, è affare di maturità, cui non escludo si possa giungere anche in giovinezza; ma, insomma, non è stato il mio caso»[4].
Pur non ritenendole «rappresentanze essenziali della misteriosa e accomodante fucina bolognese» (si faccia caso al termine «fucina», visto che l’Officina ferrarese era ancora di là da venire), nelle Precisioni nella Galleria Borghese, edite tra il 1926 e il 1928, Longhi aveva altresì preso in esame, dedicandogli un paragrafo, il «gruppo delle opere carraccesche, e in particolare il n. 43» (la Deposizione restituita ad Antonio Carracci). Quanto ad Annibale, la sua attenzione era colpita in particolare dalla Testa di giovane ridente n. 83 (fig. 2), da lui giudicata «affatto tipica di Annibale giovine, grassetta di pennellata e ‘carica’ di espressione burlesca»[5]. Si tratta di un dipinto ben noto, che rientra a tutt’oggi nel gruppo delle giovanili ‘teste di carattere’ col titolo di Buffone e nel quale Annibale, servendosi forse di un guitto (ma Elena Tamburini è convinta che si tratti di un attore professionista)[6], studia un’espressione beffarda e un po’ insolente. Nella stessa sede Longhi si soffermava sul Sansone in carcere (fig. 3), un dipinto «ad pompam riferito a Tiziano; ma, di certo, una di quelle ‘accademie alla veneta’, e per intendersi meglio, alla tintorettesca, che credo servissero ad Annibale per studio di quei nudoni che fungono da termini in affreschi sul genere di quelli di Palazzo Sampieri»[7]. L’occasione era poi propizia per richiamare a confronto anche «il Fiume del Museo di Napoli; anch’esso ascritto di recente a Tiziano, ma indicato come di Annibale già negli antichi inventari farnesiani, così come il Sansone è citato da Malvasia a Villa Borghese»[8]. Sono due aggiunte cospicue al catalogo di Annibale, accolte in tutta la letteratura successiva. Nel giovane Longhi la sempre aderente risposta critica ai dipinti esaminati si accompagna alla già perfetta padronanza delle fonti e della letteratura antica, utili in taluni casi a sorreggere le sue proposte attributive, secondo l’adagio coniato assai più tardi circa il fatto che «i buoni documenti confermano le buone attribuzioni».
Vale la pena soffermarsi, anche per quanto si dirà in seguito, sul Mangiafagioli della Galleria Colonna (fig. 4), che Longhi richiama a proposito del Ragazzo con un canestro di frutta, già da lui restituito al Caravaggio. Come già Hoogewerff, che lo aveva ritenuto del Gobbo dei Carracci[9], anch’egli nega l’attribuzione tradizionale del Mangiafagioli ad Annibale per riportarlo però «più addietro nel tempo, parendoci di fatto in uno spirito del tutto cinquecentesco, un capriccio ‘pompeiano’ o ‘ellenistico’ venato di settentrione, quale poteva sorgere nell’àmbito del Manierismo; e, in effetti, le parentele certissime con le due famose Cucine già nella collezione Messinger, e da poco donate allo Stato italiano, ci inducono nella persuasione che anche il Mangiafagioli sia opera di Bartolomeo Passarotti»[10]. Qui la questione appare più complessa, perché a queste date Longhi è portato a escludere che i Carracci e in particolare Annibale fossero implicati in soggetti di genere basso. Della sua più antica opinione egli non farà peraltro menzione nell’articolo del 1957, dove si limiterà ad anticipare la datazione del quadro della Colonna, collocata nel catalogo della mostra bolognese intorno al 1585-1586, al 1583-1584, ovvero nella fase «sperimentale e per di più così strettamente passerottiana» del giovanissimo Annibale.
Come la Grande macelleria di Oxford (fig. 5), anche il Mangiafagioli è un quadro entrato tardi nel dibattito critico sui Carracci, ma di cui non sapremmo più fare a meno per illustrare la lettura in chiave naturalistica di cui proprio Longhi sarebbe stato più tardi il promotore. Va peraltro sottolineata l’interpretazione al contrario letteraria e intellettualistica che qui egli esplicita, laddove parla del dipinto come di «un capriccio ‘pompeiano’ o ‘ellenistico’». Il fatto che a queste date Longhi non intendesse il carattere di rottura e di svolta che il Mangiafagioli propone nei confronti delle «pitture ridicolose» praticate da Passerotti (un carattere che la storiografia moderna bene evidenzia proprio attraverso il confronto con i dipinti con soggetti affini di quest’ultimo)[11] ci deve far riflettere. D’altro canto il passo appare significativo, visto che parte della critica recente tende oggi a leggere questo tipo di dipinti di soggetto quotidiano di Annibale, ivi comprese le svariate redazioni del Ragazzo che beve, in possibile relazione con un passo in cui Plinio parla dei soggetti triviali in cui si erano specializzati in antico pittori come Pirreico o Calate, esponenti appunto di una «minoris picturae»[12].
Un’occasione assai più importante per intervenire sui Carracci venne offerta a Longhi con la prolusione all’anno accademico 1934-1935 dell’Università di Bologna, dove aveva appena vinto la cattedra di Storia dell’Arte. In quel testo non si discutono ovviamente singole attribuzioni. Ciò che a Longhi sta a cuore è infatti formulare un giudizio di valore che permetta di rivedere le posizioni ormai accettate acriticamente in merito ad alcuni ‘momenti’ della pittura bolognese. E tra questi il caso dei Carracci è uno dei più significativi. Com’era stato in parte per Hermann Voss nella sua Römische Barockmalerei (1924) e sarà poi per Denis Mahon negli Studies in Seicento Art and Theory (1947), il punto che sta più a cuore a Longhi è sgomberare il campo dalla lettura in chiave eclettica che, già proposta da Malvasia, aveva poi portato alla stroncatura nei confronti dei Carracci in età romantica, quando il termine «eclettico» era divenuto sinonimo di «accademico». In molteplici occasioni Bruno Toscano ha rilevato come la critica longhiana si articoli su polarità in cui «accademico» diviene l’opposto negativo di «moderno»; ed è per dimostrare la modernità dei Carracci che egli muove contro tale interpretazione. Quella dei Carracci fu al contrario, per Longhi, una vera e propria «rivoluzione artistica», avendo «sin dall’inizio un movente ‘lombardo’, inteso a scavalcare il cadavere del Manierismo e a comunicare direttamente, ad apertura, non di libro, ma di finestra, con lo spettacolo mutevole delle circostanze di natura»[13].
I Momenti della pittura bolognese, un testo troppo noto perché se ne debba parlare in questa sede, sarebbero rimasti normativi per più di una generazione di allievi bolognesi di Longhi, da Graziani ad Arcangeli a Volpe, ed è in dichiarato riferimento a quello scritto che a partire dal 1954, finita la guerra, si avviarono le Biennali d’Arte Antica promosse da Cesare Gnudi, il cui intento era appunto quello di dimostrare, nel solco di Longhi, la modernità di artisti come Guido Reni, i Carracci e poi il Guercino (1968). Come si desume dalle fotografie scattate all’interno delle sale espositive ricavate nel grande loggiato dell’Archiginnasio[14], persino la scelta di esporre le grandi pale di Reni o dei Carracci prive delle pesanti cornici ‘da museo’ rispondeva alla precisa volontà di presentarle al pubblico come dipinti di arte moderna, da guardare cioè, secondo l’assunto proposto nel 1934 da Longhi, con gli occhi sgombri dai pregiudizi che su di esse si erano incrostati nei secoli.
Nel catalogo della mostra nel 1956 Arcangeli si era occupato di Ludovico e ancor più distesamente ne aveva trattato in un lungo saggio apparso su «Paragone» nello stesso 1956[15]. Aprendo il proprio articolo del 1957, Longhi non manca di «ricordare con particolare risalto l’ampio saggio apparso su queste colonne dove è colorito con affettuosa intensità uno degli aspetti più salienti della mostra; per dir così, la resurrezione di Ludovico». In realtà l’intervento di Arcangeli è importante anche per altri aspetti. In quella sede viene infatti operata per la prima volta la fondamentale restituzione ad Annibale della Grande macelleria di Oxford (fig. 5), assegnata a Passerotti da Bodmer e quindi discussa da Wittkower, in due diverse occasioni, in relazione prima a Ludovico e poi ad Agostino[16]. Ci si potrebbe peraltro chiedere perché l’illustrazione di quel capolavoro, al quale nel testo viene dedicato parecchio spazio, non figurasse tra le immagini di corredo dell’articolo, cosicché il merito di Arcangeli a questo riguardo è generalmente taciuto dalla letteratura successiva. Di fatto, nel catalogo della mostra, pubblicato pochi mesi dopo, la scheda di Gian Carlo Cavalli sul quadro di Oxford, presentato sotto il nome di Annibale, non fa riferimento al parere del collega, e nel proprio articolo Longhi si limiterà a notare che «l’arco enorme delle esperienze di Annibale giovane è già palese dal fatto che studiosi penetranti come i catalogatori della mostra non abbiano punto esitato a porre accanto all’apparentemente stringato e compresso Crocefisso di San Nicolò, che è del 1583, un quadro-cartellone naturalistico e di ‘genere’, come quello della Macelleria di Oxford».
D’altro canto, per quanti si sono abituati a considerare la Grande macelleria come un dipinto di rottura nei confronti della tradizione locale di Passerotti, la lettura offerta nell’occasione da Arcangeli può apparire persino riduttiva. Egli vi descrive infatti in termini aneddotici «i caratteri dell’alabardiere bravaccio, della vecchia arcigna, del macellaro scaltro», secondo un’interpretazione che riporta implicitamente la tela alle convenzioni proprie della pittura ‘ridicola’. A suo parere, «l’atteggiamento mentale [...] è quello del pittore colto divagato in divertenti ‘marginalia’ popolareschi». Più in generale, sorprende l’interpretazione offerta da Arcangeli di tutta la fase più antica dell’attività di Annibale, a proposito del quale peraltro è ripreso il passaggio di Malvasia circa il suo essere «nato veramente più degli altri duo’ pittore, con quella sua naturale facilità così ben intesa e gradita»[17]. A fronte della sincerità di Ludovico, un dato che ne riscatterebbe le vistose esitazioni stilistiche, il primo percorso del cugino pare ad Arcangeli «tutto chiuso entro un giro culturale bolognese», al punto che la stessa pala con il Crocifisso e santi dipinta nel 1583 per San Nicolò (fig. 6), «con la sua umanità un po’ artefatta, e grifagna quasi quanto in un Passerotti, resta come soffocata dall’orizzonte cenerino del Cesi».
Avviato l’esame degli affreschi con Storie di Giasone in Palazzo Fava, lo studioso giunge poi a chiedersi perché «sul 1583 i Carracci si dimostrano promettenti ma un po’ acerbi, e sul 1584 già fiorenti in una prima, giovanile maturità», per concludere che «fu stimolante, certo, il ritorno d’Agostino da Venezia, che si verificò probabilmente nel 1582; ma forse, anche più, l’incontro di Lodovico e d’Annibale sui ponti di Palazzo Fava, alla Sala di Giasone». Visto il carattere di esperimento non portante attribuito alla stessa Grande macelleria, Arcangeli rilancia cioè il ruolo di ispiratore e di mentore di Ludovico già affermato da Malvasia, giungendo a riprendere le parole di Lanzi secondo il quale, se i due fratelli «fosser capitati in altre mani, Agostino saria divenuto un nuovo Samacchini, Annibale un nuovo Passerotti; né la pittura per loro avria dato un passo»[18]. I frutti del magistero di Ludovico non sarebbero però immediati, se ancora nel 1585, dipingendo la Pietà di Parma (fig. 7), Annibale ricorre a «una composizione complessa, artefatta, ‘a clessidra’, per così dire: uno dei luoghi convenuti, cioè, delle intellettuali ‘macchine’ del Manierismo italiano», ed è «soltanto sull’87-88 che Annibale, approfondendo la meditazione sul Correggio e sui veneti, comincia a scioglier davvero le sue visioni e narrazioni sacre, non soltanto nel particolare, o nella pelle, ma anche nel discorso totale, che si fa più fuso e corrente, più semplice anche se più maestoso. Comincia quella appassionata variazione sul fraseggio ricco e variabile della gran pittura italiana del ’500, da cui è nata, con qualche giustificazione se non con ragione vera, l’interpretazione eclettica della pittura carraccesca».
Diversamente da Longhi, Arcangeli non ha paura di usare il termine di eclettismo; ma si tratta di un termine che a suo parere vale per Annibale e non certo per Ludovico, a proposito del quale cita un altro passo di Malvasia, secondo il quale Guido Reni «solea dire, stimare egli più Ludovico, perché non era stato come i Cugini tanto attaccato alla scuola Lombarda, e alla Veneziana, [ma] avevasi [...] composto una maniera nuova, e propria, che poteasi dir la sua, e da ogni altra diversa». Richiamando la «inerudita semplicità lombarda» di cui, sempre a proposito di Ludovico, aveva parlato ancora Malvasia, Arcangeli non esita poi a collocare il più anziano dei Carracci - e non Annibale - sulla strada che dal Moretto porta al Caravaggio e dunque alla pittura moderna. Si tratta, come si vede, di una lettura perfettamente inscritta, sia pure con qualche distinguo, non solo entro le coordinate stabilite nei Momenti della pittura bolognese, ma anche nel più ampio disegno longhiano che faceva della tradizione lombarda l’asse portante alla modernità.
Nell’articolo dell’anno successivo, Longhi interviene con il tono di chi vuole rimettere le cose a posto, contraddicendo in più punti quanto sostenuto da Arcangeli. Il tema di fondo è quello del ruolo trainante svolto nei confronti non solo del fratello, ma anche del più anziano cugino. Sappiamo che per Arcangeli si trattò di un colpo inaspettato e assai duro. In realtà, nelle complesse dinamiche che s’instaurano tra maestro e allievo può starci anche una presa di posizione che il primo, pur conoscendo la fragilità del secondo, finge di condurre da pari a pari e che l’allievo recepisce invece come una mancanza di generosità se non addirittura come un brutale sgambetto. A ristabilire il corretto gioco delle parti tra Ludovico e Annibale si sarebbe poi provato Carlo Volpe in un articolo pubblicato ormai in memoria dell’amico, deceduto nel 1974[19]. Il reperimento del San Vincenzo martire ora appartenente alle collezioni di UniCredit forniva infatti nuovi argomenti sulla base dei quali discutere la portata di Ludovico nella vicenda giovanile dei Carracci, anche se nemmeno in quella occasione Volpe si spingeva ad accreditare il ruolo decisivo sostenuto da Ludovico nei confronti dei cugini, a fronte della maggiore risolutezza che Annibale mostra nelle opere accertate: un dato, quest’ultimo, sul quale non mi sembra più il caso di eccepire.
Se sosto ancora un attimo sulla tela UniCredit, è perché, in un seminario dedicato al mestiere del conoscitore, non è forse inopportuno segnalare come non si fanno le attribuzioni. È recente infatti la proposta dell’amica Giovanna Perini di dirottare la paternità del San Vincenzo sul nome, del tutto inaccettabile, del baroccesco senese Francesco Vanni, in base a un «confronto morelliano tra le facce del san Vincenzo e della Sibilla» in un quadro con Augusto e la sibilla tiburtina del Monte dei Paschi di Siena[20]. Quando ci esercitavamo nel difficile esercizio dell’attribuzione, Volpe ci ammoniva che non sono i ‘vocaboli’ (ovvero le somiglianze di dettaglio, che chiamiamo appunto ‘morelliane’) a stabilire l’esatta paternità di un dipinto, ma l’intera ‘sintassi’ compositiva che lo governa: e parlare di un’identica sintassi tra i due quadri con San Vincenzo e Augusto e la sibilla mi appare assai improprio. A parte la semplificata citazioncina nella Madonna col Bambino tra le nubi, nel San Vincenzo non c’è traccia di baroccismo, mentre l’Augusto e la sibilla di Vanni ne è del tutto intriso. Non è dunque per un malinteso «principio aristotelico di autorità» che preferisco mantenermi ben aggrappato a quella che Perini chiama «la vulgata volpiana». Ma non è di Volpe (né di Ludovico) che dobbiamo ora parlare.
Come in altre occasioni, l’articolo pubblicato nel 1957 da Longhi ci fa entrare direttamente nella ‘bottega’ del conoscitore, svelandoci l’uso dei suoi ferri del mestiere. Fin dal titolo egli dichiara infatti che intende lavorare su un artista, Annibale Carracci, e su una data, il 1584. L’ambito ipotetico entro il quale il problema viene discusso è esplicitamente indicato dal punto interrogativo, che allude a una soluzione destinata a rimanere provvisoria.
Anche se per strade diverse, il significato cruciale della data 1584, segnata sulle Storie di Giasone in Palazzo Fava e probabile termine ante quem del loro completamento, era già stato indicato da Arcangeli. Sia per quest’ultimo che per Longhi il punto di partenza del problema è poi offerto dal carattere omogeneo con cui i tre cugini operano nei primi lavori a loro affidati. In proposito Longhi annota che la sua «prima persistente impressione fu quella che il lavoro dei Carracci nei primi anni di Bologna fosse talvolta il prodotto di una collaborazione assai stretta e quasi inscindibile». Oltre alle dichiarazioni riportate da Malvasia, culminanti nella frase «Ell’è de’ Carracci, l’abbiamo fatta tutti noi» pronunciata da Ludovico a proposito del fregio di Palazzo Magnani, anche il fatto che nel 1595, scrivendo al priore della confraternita di san Rocco a Reggio Emilia, Annibale prospetti «come cosa per nulla inconsueta» la possibilità di farsi aiutare da Ludovico per completare l’Elemosina di san Rocco ora a Dresda, affidatagli ormai sette anni prima, viene assunta come la prova di una costante collaborazione fra i tre cugini. Come un giocatore che tiene abilmente celate alcune delle sue carte, Longhi si guarda però bene dal ricordare che, rispondendo, il priore Fossi si era invece raccomandato che, come da contratto, Annibale eseguisse il dipinto da solo...
Stante questa situazione, a parere di Longhi gli stessi dati anagrafici contano relativamente: se «la maggiore anzianità di Ludovico potrà certamente avere un certo peso in imprese dove, per la stessa vastità dell’impegno, la collaborazione era inevitabile», «cinque o tre anni in più o in meno di età non fanno, per vero dire, gran differenza», soprattutto quando si presti attenzione «alla diversità degli impulsi mentali nei tre membri della singolare famiglia; alla dichiaratamente lenta formazione di Ludovico, cresciuto nella ‘tarda manierosità’ dei cremonesi e dei bolognesi, accanto cioè al Malosso e a Camillo Procaccini; agli inizi strettamente culturalistici di Agostino; e, invece, alla scoppiante, poliforme ingenuità creativa di Annibale, curioso di ogni moderna esperienza». Rifacendosi a Malvasia, Longhi non si limita a trarne soltanto l’indicazione, già riportata da Arcangeli, circa il fatto che Annibale fosse «nato veramente più degli altri duo’ pittore», ma anche una serie di aggettivi («animoso, vivo, pronto, sprezzante, strapazzato, schizzato, sbozzato, senza rispetto, polizia e decoro») e di situazioni iconografiche (i «facchinacci vestiti» e i «poveracci nudati»), che ne dimostrerebbero il carattere fin da subito assai più irregolare e dunque moderno rispetto ad Agostino e soprattutto a Ludovico, del quale egli immagina un avvio affine a quello di artisti ancora «manierosi» come un Camillo Procaccini a Bologna o un Malosso a Cremona. Ne consegue che il vero indépendant della situazione è appunto Annibale, per il quale Longhi non esita ad adottare, operando un transfert con la situazione a lui contemporanea, un aggettivo come fauve.
Sulla scorta di Malvasia, il carattere innovativo dell’attività di Annibale è dunque proposto da Longhi come un dato di fatto. Di qui l’asserzione, opposta a quella di Arcangeli, «che l’apparizione subitanea di questo giovine indépendant del tratto 1580-1590 possa essere stata determinante per lo stesso svolgimento di Ludovico». A riprova Longhi rileva «che, quando Annibale ha già stupito ognuno col ‘Battesimo’ di San Gregorio (1585) [fig. 8] e con le pale autorevolissime di Parma e di Reggio (1586-87), Ludovico, a parte il suo intervento un po’ confuso e ‘procaccinesco’ a Palazzo Fava [...], non ha ancora ottenuto una sola commissione importante (ché tale non può certo considerarsi l’‘Annunciazione’ di San Giorgio), né a Bologna né fuori». E, ribattendo uno a uno gli argomenti di Arcangeli, incalza: «siamo sinceri: a scena filologica vuota, e cioè senza documenti di veruna sorta, nessun conoscitore spregiudicato potrebbe assumere che la pala di Cento (1591) o la ‘Predica del Battista’ (1592) siano della stessa mano che ha dipinto sei-otto anni prima l’‘Annunciazione’ di San Giorgio». Per Longhi un tale mutamento in Ludovico non può avere altra spiegazione che «lo stimolo preminente del giovanissimo Annibale, sperimentatore instancabile, il vero indépendant (o fauve che si voglia dire) di quegli anni in Bologna. Senza il ‘Battesimo’ di San Gregorio e le grandi pale di Parma e di Reggio, le opere citate di Ludovico non s’intenderebbero né come struttura, né come strumentalità pittorica, e neppure come impulso parziale di verità». L’assunto dal quale era partito Arcangeli viene, come si vede, completamente ribaltato: le motivazioni della rapida crescita segnata dai Carracci tra il 1583 e il 1585 non vanno ricercate in Ludovico, ma in Annibale. Lo stesso rapporto di dipendenza impronta l’attività di Agostino, per il quale il fatto che «si applicasse fin dal 1581-82 a incidere dai Veneziani non significa ancora che ne avesse inteso il senso fino a farne carne e sangue propri». Nella piccola Deposizione di San Pietroburgo (fig. 9), già ritenuta di Annibale ma che da Longhi restituita giustamente ad Agostino, egli pare voler «rettificare classicamente il pathos e la struttura del grande esemplare del fratello ai Cappuccini di Parma».
A questo punto Longhi si chiede per quali vie Annibale fosse giunto ad assicurarsi un simile ruolo di guida entro l’accademia carraccesca. Scarta subito l’ipotesi di lunghi viaggi di studio, giacché «purtroppo questi viaggi, se immaginati dai critici, finiscono quasi sempre per rassomigliare troppo ai viaggi dei critici stessi» e non tengono conto delle reali occasioni di cui poteva avvantaggiarsi un giovane privo di mezzi. Meglio immaginare spedizioni a breve distanza da Bologna: a Ferrara, dove lo Scarsellino andava già rielaborando alcune novità apprese dal Veronese; a Modena per studiare «la grande riserva veneta della corte Estense» (un curioso anacronismo, va detto, visto che la Galleria di Francesco I era ancora in mente dei); a Rimini, per ammirare la pala di San Giuliano del Veronese; a Ravenna, dove nel 1583 Federico Barocci aveva inviato il suo Martirio di san Vitale. Ma soprattutto, a suo parere occorre tenere presenti le opportunità offerte dalle «buone collezioni bolognesi, dove certamente spesseggiavano cose della più varia estrazione e soprattutto quelle, ampiamente commerciabili, e di soggetto popolare, dai Bassano a Vincenzo Campi, già in parte tradotte a Bologna nel dialetto del Passerotti». E poiché già nel Battesimo di San Gregorio (fig. 8), licenziato nel 1585, Annibale «mostra d’avere inteso come dall’astrazione manieristica del Baroccio - e magari di Ludovico - occorra risalire alla classicità fluttuante del Correggio», «possiamo arrischiare che dopo gli accenni antitetici del 1583, l’unico anno a disposizione di Annibale per le sue varietà sperimentali resti, per dirla in breve, il 1584».
Avendo già implicitamente stabilito che, in quanto opera di stretta collaborazione, le Storie di Giasone in Palazzo Fava, datate appunto 1584, risultano indecifrabili nei singoli apporti, Longhi esamina una serie di dipinti che potrebbero spettare ad Annibale in questo anno ‘di svolta’, rendendo conto delle esperienze da lui condotte tra il 1583 e il 1585. Il primo è appunto la Vestizione di santa Chiara di Grenoble (fig. 1), di cui Longhi dichiara di conservare la fotografia nella sua cartella di Annibale «da trentasei anni», cioè dagli anni tra il 1920 e il 1921 nel corso dei quali aveva compiuto il lungo viaggio in Europa in compagnia di Alessandro Contini Bonacossi. Il dipinto, pervenuto al museo francese senza indicazioni di paternità e di provenienza, consente di fatto a Longhi di proporre un’attribuzione come ‘ipotesi di lavoro’ per rafforzare quanto intende sostenere.
Prima di proseguire è necessario intendersi su un punto (lo dico ovviamente ai giovani iscritti al seminario). Per lo storico dell’arte l’attribuzione comporta un ragionamento più complesso di quello necessario al semplice ‘riconoscimento’. Un conto è infatti riconoscere i modi di un pittore in dipinti che entrano facilmente nel suo catalogo in base al confronto con opere simili già note e per i quali resta semmai da valutare l’esatto grado di autografia. Anche senza aver sottomano libri o fotografie, in questo caso il conoscitore può fare riferimento a tutta una serie di immagini che fanno parte del suo bagaglio di conoscenze. Si tratta di quella sorta di schedario mentale, pronto per essere sfogliato al momento opportuno, al quale alludeva Zeri quando, davanti a un quadro di cui non era in grado di riconoscere l’autore, soleva scherzosamente dire: «se chiudo gli occhi, non vedo niente[21]». Assai diverso è invece il processo che, dopo aver individuato le coordinate storico-geografiche di un dipinto, arriva a collocarlo alla loro esatta intersezione, dove può essere cercato il nome dell’artista che, in base alle nostre attuali conoscenze, ha operato con quelle determinate caratteristiche. Si tratta di un’operazione non priva di rischi, e dunque da praticare in modo responsabile appunto come ‘ipotesi di lavoro’, ovvero come una sorta di scommessa destinata ad essere confermata o smentita allorché verremo in possesso di nuovi elementi che al momento possiamo soltanto ipotizzare.
Se è vero che, come dice il proverbio, quando si indica la luna, lo stolto guarda il dito, in Longhi l’attribuzione (non dunque il semplice riconoscimento) è spesso il dito, ovvero il mezzo che gli serve per indicare un problema più ampio, alla cui soluzione si perviene con un ragionamento di tipo essenzialmente storico. Si può dare quindi il caso che il ragionamento rimanga in piedi anche se l’attribuzione che mirava a rafforzarlo cade, dimostrandosi errata. E non c’è dubbio che quando, sul finire del XVIII secolo, parlava di «intelligenza delle maniere», anche Lanzi facesse riferimento a un’operazione di questo tipo; tant’è vero che continuava scrivendo: «è più raro trovare un vero conoscitore, che un pittor buono. È questa un’abilità a parte; vi si arriva con altri studij; vi si cammina con altre osservazioni: il poter farle è di pochi; di pochissimi il farle con frutto»[22].
Per Lanzi, come per Longhi, il mestiere del conoscitore è tutt’uno con quello dello storico.
Introducendo nel discorso la Vestizione di santa Chiara di Grenoble, Longhi vi coglie alcuni aspetti che gli sembrano di fatto collimare con la situazione che intende chiarire. Il suo esame comincia dall’ambientazione, impostata «con la vecchia tradizionale centratura prospettica cinquecentesca, tra veneziana e bresciana, o cremonese, che partendo dal pavimento a formelle della chiesetta sale i gradini dell’altarolo di villa fino all’imposto architettonico palladiano-veronesiano (si pensi alle ante d’organo di San Sebastiano a Venezia) che viene a inquadrare una paletta di Madonna in gloria di intavolatura palesemente scarsellinesca». Sintomatico del suo procedere è il modo con cui gli aspetti più filoveneziani della grande pala vengono sistematicamente abbassati di tono, così da ricondursi al tipo di esperienze visive che il giovane Annibale avrebbe potuto «più agevolmente e senza troppa spesa reperire nelle zone viciniori». Ad esempio, la «tradizionale centratura prospettica cinquecentesca, tra veneziana e bresciana», può anche essere «cremonese», e dunque alla portata di un artista la cui famiglia proveniva appunto da Cremona; e «l’imposto architettonico palladiano-veronesiano», che potrebbe richiamare un culmine della pittura veneziana come le ante d’organo con la Piscina probatica del Veronese in San Sebastiano (1560), serve invece ad inquadrare «una paletta di Madonna in gloria di intavolatura palesemente scarsellinesca», ovvero un tipo di dipinto in auge anche nella vicina a Ferrara. A un tale décalage, che mira a collocare il dipinto in un ambito periferico rispetto a Venezia, contribuiscono anche i termini adottati nella restituzione verbale: il «pavimento a formelle», la «chiesetta», l’«altarolo da villa», la «paletta». Ne emerge un contesto di attenzioni affettuose, attraverso cui l’evento sacro si declina con studiata naturalezza.
Ma è lo stesso Longhi a esplicitare una simile intenzione, allorché passa a riferire dei personaggi che prendono parte all’azione: «entro questa scenica di classicità quasi fanciullesca le figure si dispongono con una curiosa alternativa di stringatura e di libertà che dal profilo di committente, che sembra uscire da una vecchia pala di Giulio Campi (ed ecco un ricordo cremonese!), giungono invece alle scioltezze bassanesche e tintorettesche del mendicante (‘poveraccio nudato’) stravolto in primissimo piano». Sono appunto i caratteri che è lecito attendersi da Annibale, nel momento in cui la frequentazione delle «buone collezioni bolognesi» lo porta a esibire, «con una curiosa alternativa di stringatura e di libertà», una prima conoscenza della pittura veneta: dove «stringatura» sta per una certa concentrazione narrativa ossequiosa nei confronti della tradizione, mentre la «libertà» è il tratto distintivo del giovane indépendant, così come la «classicità quasi fanciullesca» che gli consente di accostare quegli aulici modelli senza alcun timore reverenziale. Da sottolineare è anche il ripetersi dell’aggettivo «vecchio» («la vecchia tradizionale centratura prospettica», «una vecchia pala di Giulio Campi»), un termine che implica un movimento, poiché è dal vecchio che, nei Carracci, nasce il nuovo. Già nei Momenti Longhi aveva osservato come, dopo «l’aspetto solito di ogni rivoluzione artistica: quello, insomma, del ‘ritorno alla natura’», subentrasse «l’incontro (e che romantico incontro fu quello) con i precedenti artistici tradizionali», che «li getta in un furioso amore per la vera grande pittura italiana»[23].
Di un tale romantico incontro la Vestizione di santa Chiara, intessuta di rimandi al Bassano, al Veronese e al Tintoretto, sarebbe dunque il segno più precoce. Ed è curioso che in questo caso Longhi non si senta in dovere di corroborare la nuova attribuzione indicando confronti palmari con le opere che la precedono e la seguono. L’azzardo implicito nell’attribuzione come ipotesi di lavoro sta appunto nell’impossibilità di una sua verifica immediata. Si tratta infatti di individuare le ragioni di un momento di rapida crescita, destinato a risolversi, con altre forme, nell’attività successiva, quando l’artista ci appare in possesso dei suoi caratteri meglio riconoscibili. Ammesso dunque che di Annibale si tratti, visto che vi si possono leggere in controluce i moventi che sottostanno a questa sua fase di passaggio, è chiaro che la pala di Grenoble non può avere che una datazione: «se, da una parte, è impossibile collocar l’opera prima del compresso e coagulato “Crocefisso” di San Niccolò (1583), dall’altra è parimenti assurdo pensarl[a] dopo le meditazioni più complesse sul Baroccio e sul Correggio come si manifestano nel “Battesimo” di San Gregorio e nella “Deposizione” di Parma, entrambe dell’85. Unico anno disponibile è pertanto, il 1584. La data non disconviene alla cultura rapsodica di questo momento di Annibale, sui ventitré, ventiquattro anni, in atto di cavare tutti i frutti possibili dall’antologia regionale di cui s’è adombrata la topografia».
Il fatto però è che, nonostante l’opzione in favore di Annibale Carracci avanzata da Longhi con tutti gli steccati che ne derivano a livello cronologico, la Vestizione di santa Chiara non è opera sua, tanto che nessuno degli studiosi successivi l’ha accolta nel suo catalogo[24]. Si tratta invece di un capolavoro di Fra Semplice da Verona, un artista operoso per giunta a date assai più tarde, a partire dal secondo decennio del Seicento. Anche se su «The Burlington Magazine» era da poco apparsa una nota in cui Benedict Nicolson pubblicava la grande tela con la Parabola dell’invitato indegno firmata e datata 1622 conservata nel castello di Holyrood in Scozia (fig. 10)[25], ai tempi di Longhi la sua personalità non era ancora stata messa del tutto a fuoco, né era noto un sufficiente numero di quadri sui quali operare gli opportuni confronti. Molti anni dopo, quando il mio schedario mentale poteva ormai disporre di molte immagini del pittore veronese, riconoscerlo nella pala di Grenoble sarebbe stato invece - se mi passate il gioco di parole - relativamente semplice. Da qualche tempo avevo infatti acquistato, trovandola su una bancarella, l’ancor utile monografia di Luigi Manzatto, dove non soltanto sono riprodotti a colori numerosi particolari della grande tela di Holyrood, in cui il frate-pittore si avvale di un repertorio architettonico e figurativo in tutto prossimo a quello del quadro di Grenoble[26], ma viene reso noto un consistente gruppo di dipinti di sicura autografia che ne rendono chiaro il percorso. La pala, in base alla quale Longhi aveva formulato una complessa ipotesi di lavoro, costituiva dunque per me un mero problema di riconoscimento.
Dopo che la mia indicazione è apparsa sul catalogo pubblicato da Chiarini nel 1988 e la pala di Grenoble è stata presentata con il nome di Fra Semplice alla mostra Seicento tenuta a Parigi nello stesso anno[27], Renato Berzaghi ha appurato che, pur senza far menzione del suo autore, «un quadro grande [...] rappresentante S. Francesco e S. Chiara» veniva registrato sull’altare della chiesa delle cappuccine di Mantova nell’inventario redatto nel 1782 al momento della sua soppressione[28]. Se si tratta davvero del dipinto pervenuto a Grenoble, la paternità del frate, attivo in genere per le chiese del proprio ordine, ne esce rafforzata anche da un argomento ‘esterno’. Poiché però il percorso che ha portato all’attribuzione e alla conseguente identificazione con il quadro già a Mantova trova pur sempre le sue ragioni ultime in una considerazione di tipo stilistico (o «morfologico», per usare il termine da lui adottato), mi chiedo se si possa a questo punto parlare di ‘dimostrazione’ nei termini inoppugnabili e definitivi auspicati da Ginzburg. La consapevolezza circa la provvisorietà delle conclusioni raggiunte è tuttavia connaturata all’attitudine dello storico, e nemmeno allo storico dell’arte sono richieste dimostrazioni euclidee[29]. Proseguendo le ricerche avviate da Berzaghi, altri potrà verificare le strade che hanno portato la tela da Mantova a Grenoble o ricercare l’atto della sua commissione a Fra Semplice, che non si troverà forse mai. Allo stato attuale delle conoscenze, lo storico dell’arte-conoscitore può ritenersi più che soddisfatto del risultato conseguito.
Potrebbe semmai apparire strano che in precedenza nessuno avesse pensato di risolvere il problema in relazione a Fra Semplice; ma evidentemente gli specialisti di arte veneta non guardano gli studi bolognesi, e viceversa. Devo peraltro ricordare che, mentre scendevamo le scale dell’Istituto Tedesco dopo aver incontrato Chiarini con la sua foto, Mario Di Giampaolo, presente al rapido consulto, aveva continuato a sostenere l’ipotesi longhiana in favore di Annibale sulla base del fatto che del dipinto di Grenoble conosceva un disegno preparatorio: poco tempo dopo ho potuto peraltro appurare che il disegno al quale faceva riferimento era forse lo Studio di testa per uno degli astanti di sinistra, reso noto nel catalogo della raccolta Fachsenfeld di Stoccarda come di Alessandro Tiarini. Nemmeno il disegno era però di Annibale, bensì appunto di Fra Semplice, solito a usare matite di diversi colori. Da allora il catalogo del frate pittore e disegnatore si è molto arricchito, con apporti recati a gara da vari studiosi[30]: una gara alla quale non voglio mancare di contribuire nemmeno in questa occasione, segnalando un ennesimo Studio di testa di frate a matite colorate che nel Museum Kunstpalast di Düsseldorf passa come opera di Marco Benefial (fig. 11)[31].
Tornando all’assunto iniziale, è il caso di chiedersi se e in quale misura la lettura formulata da Longhi nel 1957, pur sbagliata nelle conclusioni, si giustifichi in relazione all’accertata paternità del quadro di Grenoble. In accordo con il carattere retrospettivo di gran parte della pittura veneta di primo Seicento, Fra Semplice (di cui non si conoscono purtroppo il nome da laico e la data di nascita) opera una personale rilettura della tradizione locale cinquecentesca, che ha i suoi numi nel Veronese e nel Bassano. Già nei dipinti commissionatigli tra il 1618 e 1621 da Ranuccio Farnese per il convento cappuccino di Fontevivo, che costituiscono le sue prime opere note[32], tali rimandi si coniugano con una precisa attenzione per i modi di Annibale Carracci, studiati sulla Deposizione di Parma (1585) o sulla Madonna di san Matteo allora a Reggio e ora a Dresda (1588), alla quale rende omaggio la composizione scalena del Riposo in Egitto. Nella Vestizione di santa Chiara, dipinta per una chiesa conventuale femminile (Longhi l’immaginava proveniente da «un piccolo oratorio di provincia»), la squillante gamma neoveronesiana, assai simile a quella adottata nella Parabola dell’invitato indegno, è restituita attraverso una pittura di grana grossa in certa misura ancora carraccesca, mentre l’accento marcatamente naturalistico sposta su un piano feriale il tono aulico dei prestigiosi modelli di cui il frate si serve.
In assenza di ogni ulteriore informazione, la pala di Grenoble poteva dunque esemplificare, come ipotesi lavoro, l’apertura del giovane Annibale in direzione veneta. Alcuni anni dopo, muovendosi all’apparenza entro il solco tracciato da Longhi, e ribadendo il ruolo trainante avuto nei confronti degli altri Carracci da Annibale (e anche in questo caso Arcangeli si sarà sentito tradito), Carlo Volpe avrebbe spostato sensibilmente il problema, giacché, restituendogli il disegno col Giudizio di Paride conservato a Cambridge, egli verrà a dimostrare che la svolta segnata tra i dipinti licenziati nel 1583 e la Deposizione del 1585 non sottintende tanto una conoscenza dei modi del Veronese, al quale Annibale si accosterà solo più tardi, quanto del Correggio[33].
Se la Vestizione di santa Chiara di Grenoble cade dunque dal catalogo di Annibale, nell’articolo di Longhi appare tuttavia ancora utile il richiamo all’importanza che per il giovane artista poterono ricoprire i quadri dei Bassano, presenti anche nelle quadrerie bolognesi. Un preciso interesse per i modi dei Bassano si legge di fatto fin nella Piccola macelleria di Fort Worth (fig. 12), un quadro la cui esecuzione precede a mio avviso quella della Grande.
Sappiamo da Francesco Cavazzoni, che scrive nel 1603, che «molti bei quadri de mano del Bassano» si trovavano a Bologna in Palazzo Facchinetti[34]. Solo in alcuni casi gli inventari della famiglia fin qui reperiti da Chiodini menzionano però dettagliatamente i soggetti dei dipinti, ben quattordici, che passarono a Roma in seguito al matrimonio di Violante Facchinetti col principe Giovanni Battista Pamphilj, così che non siamo perfettamente in grado di riconoscerli in quelli attualmente conservati nella Galleria Doria-Pamphilj[35]. Rimane comunque provata la possibilità da parte del giovane Annibale di accedere anche a Bologna alla conoscenza di quadri usciti dalla bottega dei Bassano, ben prima cioè che nel corso del citato viaggio a Venezia del 1587 potesse fare la conoscenza diretta di Jacopo da Ponte, che nell’occasione gli riserberà uno scherzo di cui egli stesso parla nelle postille alle Vite di Vasari.
Se è possibile che della collezione Facchinetti avesse fatto parte il Ritorno del figliol prodigo della Galleria Doria, firmato da Jacopo e Francesco e databile intorno al 1576-1577 (fig. 13)[36], e se davvero Annibale lo vide, è evidente che poté essere suggestionato dal modo di condurre il soggetto ponendo in primo piano gli inservienti che si affannano a macellare il vitello con cui, secondo la parabola evangelica, il padre intende festeggiare il ritorno del figlio che credeva perduto. Il vitello eviscerato e appeso per le zampe posteriori torna tanto nella Piccola quanto nella Grande macelleria; ma al fragore delle lacche rosse accostate ai verdi smeraldo del quadro dei Bassano Annibale sostituisce una gamma cromatica assai meno sontuosa e brillante, al fine di conferire al suo dipinto un significato assai più ‘vero’, al quale concorre poi il mobile gioco della luce e dell’ombra all’interno della bottega.
Tra gli altri dipinti citati nell’articolo del 1957, vorrei infine soffermarmi sul San Girolamo in meditazione della Galleria Doria-Pamphilj di Roma (fig. 14), già riferito a Palma il giovane e a Girolamo Muziano, ma da Longhi restituito ad Annibale[37]. Di recente l’ascrizione a Muziano, originariamente proposta da Ugo da Como, è stata rilanciata da John Marciari, ma ricusata nella sua monografia da Patrizia Tosini, che non avanza però alcun nome alternativo, né ricorda l’opinione di Longhi. Dal canto mio, nel 1989 ne avevo proposto un riferimento ad Agostino Carracci, suggestionato dalle affinità con il paesaggio al tramonto nella Comunione di san Gerolamo della Certosa, ora in Pinacoteca[38]. Il dipinto si è poi rivelato provenire dalla già citata collezione Facchinetti, il cui primo inventario, di poco successivo al 1615, lo cita come «un quadro con cornice verde e filetto d’oro in tela ch’è un San Girolamo nudo con panno rosso, e libri, di mano d’Annibale Carrazzi»[39]; e un esame recente, effettuato anche grazie a una buona fotografia, mi ha convinto che avesse ragione Longhi allorché lo riferiva al minore dei Carracci, che «nella testa bigotta e pure umoresca del santo, nella mano ossuta, nei libri così ricercati oscilla tra il Passerotti e Leandro Bassano; e, nel paesaggio stupendo, tra eroico e romantico, vaga da Tiziano allo Scarsellino e agli inserti crepuscolari del Veronese». La complessità delle componenti stilistiche così evidenziate non mi pare però convenire alla datazione precoce proposta da Longhi, visto che il San Girolamo è un bellissimo esempio di come, intorno al 1589-1590, Annibale guarda ai veneti: più che bassanesco, come voleva Longhi, il meraviglioso paesaggio è infatti decisamente tizianesco. Come in altri casi, ad esempio nella Venere e Adone del Prado, il nuovo amore per i veneti, scoppiato a seguito del viaggio a Venezia compiuto tra il 1587 e il 1588, non si sostituisce però del tutto a quello per il Correggio, ancora evidente negli incarnati e nelle legature dei libri, come consumate dalla luce.
Note
Pubblicato in Il mestiere del conoscitore. Roberto Longhi a cura di Anna Maria Ambrosini Massari, Andrea Bacchi, Daniele Benati, Aldo Galli, Bologna, Fondazione Federico Zeri, 2017, pp. 289-317.