di Laura Laureati
Questo scritto riprende un lavoro interrotto molti anni fa. Inizio quindi raccontando una storia, è la cronaca della nascita di quello studio che prelude a La natura morta in Italia, pubblicata in due volumi da Electa nel 1989, con la direzione scientifica di Federico Zeri e la cura di Francesco Porzio[1]. Siamo nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso. Ludovica Trezzani e io lavoriamo nello studio di Giuliano Briganti. Briganti è molto amico di Federico Zeri. L’intensità di questa amicizia è testimoniata in due diverse occasioni dallo stesso Zeri: una prima volta quando nel 1992, intervistato da Gabriella Caramore in una trasmissione radiofonica tutta dedicata a Briganti, sostiene che Giuliano è tra i suoi migliori amici[2]. Di nuovo, tre anni dopo la morte di Briganti, nel 1995, quando, in Confesso che ho sbagliato, racconta che fu Giuliano, «uno dei [suoi] amici più cari», nel 1946, a fargli conoscere Roberto Longhi[3]. Proprio questo legame fa sì che Zeri, nel 1986-1987, nella fase della scelta degli studiosi ai quali affidare i vari saggi del volume, divisi topograficamente (esempio: La natura morta in Lombardia, in Piemonte, ecc.), interpelli Giuliano perché scriva un saggio sulla natura morta a Roma all’interno del volume. Briganti non è interessato, non crede troppo a questi studi monografici o tematici, ma propone a noi, a Ludovica e a me, di studiare seriamente l’argomento, dall’inizio, partendo dalle fonti, e di scrivere poi il saggio e le biografie dei pittori. Federico Zeri accetta la sostituzione: se è Giuliano a scegliere le persone adatte, ritiene di potersi fidare. C’è un unico punto in discussione: Zeri vorrebbe che noi ci occupassimo di un capitolo preciso, la natura morta caravaggesca.
"C’è un unico punto in discussione: Zeri vorrebbe che noi ci occupassimo di un capitolo preciso, la natura morta caravaggesca."
È la nascita del genere, nel periodo che va dal 1590 al 1630. Federico Zeri, in un suo brevissimo testo del 1987 introduttivo ad un volume sulla natura morta (di sole tre pagine), lo scrive a chiare lettere: il periodo aureo del genere è quello che «si chiude nel 1630, nello stesso momento in cui la natura morta passa, da fatto di innovazione e di sperimentazione, ad una sorta di codificato e accademizzante repertorio di valore essenzialmente decorativo»[4]. Questo della natura morta caravaggesca è l’argomento principe, quello che interessa Zeri, forse avrebbe voluto scriverlo lui, ma per noi questo è un soggetto troppo controverso, non ci sono elementi certi ai quali riferirsi. In un primo tempo Federico Zeri aveva affidato questo saggio, quello basilare, a Maurizio Marini, del quale, allora, apprezzava l’intelligenza e la finezza dell’occhio, poi, alla resa dei conti, Marini aveva consegnato il suo testo e Zeri non si era trovato d’accordo con le sue ricostruzioni. Non dimentichiamo che dieci anni prima, nel 1976, Federico Zeri aveva pubblicato, in Diari di lavoro 2, la sua brillante ipotesi sui due quadri Borghese, provenienti dal sequestro del Cavalier d’Arpino, e altre nature morte caravaggesche, opere tutte da riferire, a suo avviso, al giovane Caravaggio[5]. E questo precedente, che si volesse accettare o meno l’idea dello studioso, avrebbe avuto un peso nella stesura di un saggio sulla natura morta caravaggesca. Di fronte alla proposta di Zeri, Ludovica e io, senza aver mai letto il testo di Maurizio Marini, pensammo subito che non avremmo voluto sostituire qualcuno che era stato messo da parte. Ma soprattutto eravamo consapevoli che non avremmo scritto su un argomento, la natura morta caravaggesca a Roma, che non conoscevamo abbastanza, che era privo di vere e proprie personalità precise, identificate o identificabili (escluso naturalmente lo stesso Caravaggio), e che si basava, perlopiù, su opere passate negli anni sul mercato e conservate in diverse collezioni private, difficili da vedere. Non avevamo intenzione di subire la personalità di Federico Zeri che ci avrebbe, giustamente, sovrastato senza che noi avessimo argomenti sufficienti per controbattere e partecipare attivamente alla discussione. Avremmo affrontato, partendo dalle fonti, La natura morta postcaravaggesca a Roma, da Michelangelo Cerquozzi a Ignazio Stern[6]. Giuliano ci sosteneva nella decisione. Federico Zeri accettò, forse a malincuore. Come racconta nel suo saggio Ludovica Trezzani, andammo, con Giuliano, a trovare Zeri nella sua casa di Mentana e passammo uno straordinario pomeriggio: assistevamo ad un incontro ‘storico’ tra due studiosi, amici, di chiara fama e questo ci sembrava sufficiente, ma non si parlò di natura morta, né vedemmo alcuna fotografia di dipinti di questo soggetto della fototeca di Zeri.
"...andammo, con Giuliano, a trovare Zeri nella sua casa di Mentana e passammo uno straordinario pomeriggio: assistevamo ad un incontro ‘storico’ tra due studiosi, amici, di chiara fama e questo ci sembrava sufficiente, ma non si parlò di natura morta, né vedemmo alcuna fotografia di dipinti di questo soggetto della fototeca di Zeri."
Tutto il nostro lavoro sulla natura morta postcaravaggesca a Roma si basò sullo studio diretto delle fonti sei e settecentesche, soprattutto inventari di collezioni (anche inediti), e della bibliografia otto e novecentesca sull’argomento, sulla visione dei dipinti conservati perlopiù a Roma, e sul materiale fotografico della fototeca di Giuliano Briganti. Non abbiamo mai saputo cosa pensasse davvero il direttore scientifico del libro. Federico Zeri non prese parte mai alle riunioni del gruppo di studiosi, provenienti da varie parti d’Italia, che a quel lavoro parteciparono. Tutte le riunioni, almeno quelle alle quali noi fummo presenti, si svolsero nella grande biblioteca, intorno al lungo tavolo nero, della casa-studio di Giuliano Briganti in via della Mercede 12a, a Roma. Naturalmente Giuliano era sempre presente. Non ricordo quanti furono quegli incontri, organizzati, se non sbaglio, da Carlo Pirovano e presieduti dal giovane Francesco Porzio che avrebbe curato i volumi, certamente almeno quattro o cinque, ma probabilmente di più. Si discuteva animatamente sul materiale presentato e quello scambio di idee era molto interessante. Forse era la prima volta che partecipavamo a incontri del genere con colleghi di formazione diversa. Quel lavoro ci insegnò moltissimo e fu una base per conoscere il genere natura morta. Alcuni esperti dell’argomento (tra questi Antonio Alparone, un vero conoscitore della natura morta, consultato da molti studiosi, ma rimasto sempre dietro le quinte) ci dissero, allora, che avevano apprezzato il punto di partenza di questo nostro lavoro, il ritorno, ab origine, alle fonti, alle opere firmate che avrebbero offerto la base da cui partire per ricostruire personalità artistiche ancora poco note. Un nucleo originario di dipinti certi, poche attribuzioni e molta documentazione, attraverso incisioni di riproduzione, esame degli inventari di collezioni, spesso inediti, che potevano condurre al nome dell’autore. Lettura, ex novo, di tutta la bibliografia sull’argomento, senza citare mai un testo che non fosse stato esaminato direttamente. Questo era il metodo che avevamo seguito, qualche anno prima, cominciando a lavorare, nello studio di Giuliano Briganti, alla mitica catalogazione delle opere dei pittori del Seicento italiano, interrotta alla lettera C, partendo dalle fonti seicentesche. Un progetto questo di Briganti finanziato dal Premio Mattioli, della Banca Commerciale Italiana, vinto dallo studioso nel 1977[7]. Tentavamo, faticosamente, di applicare quel metodo ‘brigantiano’ ad un soggetto così volatile come la natura morta romana.
"Oggi, tornando sull’argomento, chiamata, dopo trent’anni, ad esaminare per la prima volta una piccola sezione non ancora pubblica, quella della natura morta romana"
Oggi, tornando sull’argomento, chiamata, dopo trent’anni, ad esaminare per la prima volta una piccola sezione non ancora pubblica, quella della natura morta romana, della vasta e ordinata fototeca di Federico Zeri, mi trovo di fronte ad un compito diverso che si manifesta – è bene a mio avviso precisarlo – come un lavoro sulle fotografie e non sull’opera. Qui parla solo il materiale di riproduzione. Non ho visto direttamente i dipinti che illustro, li ho incontrati attraverso l’esame delle schede e delle fotografie, cartacee, della Fototeca Zeri. Scelgo di parlare di alcune opere, tratte dalla cartella dell’anonimo Maestro della natura morta Acquavella, che ritengo di poter riferire, per confronti stilistici, a Michelangelo Cerquozzi (1602-1660)[8]. Naturalmente nella vasta fototeca di Federico Zeri esiste anche la cartella di Michelangelo Cerquozzi che raccoglie, tra gli altri, i quadri più noti dell’artista romano, le grandi composizioni con figure, quella già parte della raccolta di Aldo Briganti (il padre di Giuliano), ora nella collezione della Banca d’Italia, proveniente dalla collezione del cardinal Decio Azzolino (1623-1689), un’altra allora presente sul mercato antiquario romano (già proprietà Gasparrini), quella del Prado, proveniente dalla collezione Azzavedo (o de Azzavedo), e infine quella del Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam[9].
Michelangelo Cerquozzi, il pittore che ho imparato a conoscere come bambocciante fin dai primi anni Ottanta, è ancora, per me, fonte d’interesse poiché rappresenta, a mio avviso, l’anello di congiunzione tra la fantomatica natura morta caravaggesca – quella del Caravaggio medesimo, del cosiddetto Maestro della natura morta Acquavella, di Pietro Paolo Bonzi e di Agostino Verrocchi – e la più complessa evoluzione barocca dei Michelangelo Pace (1625-1669) e degli Abraham Brueghel (1631-1697), attivi a Roma dalla metà del Seicento in poi.
L’ipotesi della sottrazione al Maestro della natura morta Acquavella e del riferimento al Cerquozzi di quattro composizioni di frutta, le chiamerei così più che nature morte, nasce dal confronto con una quinta tela, la foto della quale è anch’essa parte della Fototeca Zeri, quella un tempo nella collezione Campori a Modena poi Rotunno a Roma, da più di sessant’anni attribuita al Cerquozzi. Quest’opera, fin dal 1954, è stata pubblicata da Giuliano Briganti come autografa del pittore romano e io stessa l’ho sempre considerata tale, mentre Federico Zeri la inserisce nel suo gruppo del fantomatico e anonimo Maestro della natura morta Acquavella[10]. Per un certo verso questa cartella è piuttosto singolare perché riunisce, come scrive Ludovica Trezzani a proposito delle opere che ha scelto di pubblicare, dipinti che appartengono al cosiddetto vero e proprio Maestro dell’Acquavella (ancora oggi, mi sembra, non identificato), altri di Michelangelo da Campidoglio, e un quadro, Giovane che odora una zucca (o L’odorato), che è tipico di Antonio Amorosi, un pittore marchigiano attivo a Roma nel primo Settecento. È come se lo studioso in questa cartella avesse raccolto dipinti affini per soggetti più che per autore, interessato a un lavoro di catalogazione quasi di tipo scientifico, da professore di botanica. Non possiamo dimenticare che da ragazzo Federico Zeri si era iscritto, in un primo tempo, all’università per studiare botanica e chimica e aveva, come scrive lui stesso, una vera e propria passione per le piante[11]. E dunque la cartella del Maestro della natura morta Acquavella risente forse di quella sua antica passione giovanile.
Ma per tornare ai nostri cinque dipinti, quattro più uno, da riferire a Michelangelo Cerquozzi, la revisione parte dalla Natura morta con uva, cesto di mele e castagne, Roma, collezione G. Rotunno (fig. 1)[12. Questo è il primo dipinto della serie, ripetutamente pubblicato come opera del Cerquozzi. Il quadro, un tempo nella collezione Campori di Modena, come ho già scritto nel 2005, si può forse identificare con quello ricordato nel 1671 nella raccolta del cavalier Nicolò Carandini di Modena e, qualche anno dopo, nel 1685, sempre a Modena nella collezione del principe Cesare Ignazio d’Este[13]. Ed è questa Natura morta con uva, cesto di mele e castagne il termine di confronto per i quattro riferimenti successivi, le due coppie di quadri pendant. I primi due dipinti, nel 1991, facevano parte di una raccolta privata torinese e credo siano inediti: la Natura morta con uva nera (fig. 2)[14], e la Natura morta con uva bianca (fig. 3)[15]. Gli altri due appartenevano proprio alla collezione di Federico Zeri, la Natura morta con tralci d’uva, rami di fichi, melagrane e zucche (fig. 4)[16], e la Natura morta con tralci d’uva, mele cotogne e melagrane (fig. 5)[17]. Queste due ultime composizioni, pur indicate con dimensioni un po’ diverse (cm 115x134), sono state già pubblicate da Luigi Salerno nel 1984 come opere del Maestro della natura morta Acquavella, dallo studioso identificato con il lucchese Pietro Paolini[18]. E di nuovo, con le stesse misure, sono state riunite e nuovamente illustrate da Alberto Cottino nel volume del 1989[19].
Nel bel volume del 2009 che raccoglie il grande lavoro di Luigi Spezzaferro dedicato alla pubblicazione degli inventari dei collezionisti romani del Seicento – di tutti quei collezionisti meno noti, meno nobili, ma molto importanti per un censimento del collezionismo romano – troviamo numerose composizioni di frutta di Michelangelo Cerquozzi. Una in particolare, nella descrizione, ricorda i pendant della raccolta di Federico Zeri. Nell’inventario dell’1 marzo 1690 della collezione di Antonio Amici Moretti, al n. 62 è citato:
Un quadro in tela di palmi tre, e due e mezzo con diversi frutti cioè un sasso dove posano li detti cioè tre mele, un cotogno due fichi, et una rama con tre altri appoggiati a due granati, e per aria quattro rampazzi di uve, due bianchi, e due negri con sue frondi di vite di mano di Michelangelo Cerquozzi detto delle Battaglie[20].
Per questi cinque dipinti, tutte composizioni raffiguranti frutta viva da raccogliere, vale ancora quanto scrivevo a proposito delle nature morte-paesaggio di Michelangelo Cerquozzi nel 1989:
Lo spazio che le contiene […] è l’habitat naturale dei frutti […] l’uva pende con i suoi tralci dall’albero cui si appoggia la vite […] i fichi dai rami della pianta che li ha generati […]. Se altri frutti si ammucchiano, a guisa di mostra, sul suolo […] è perché sono caduti dall’albero. Insomma, la composizione si avvale sempre di una verosimiglianza ‘naturale’ che differisce nettamente dall’artificio delle scenografiche mostre di frutta di Campidoglio, disposte anch’esse all’aperto in un paesaggio[21].
È questa la caratteristica delle composizioni di frutta del Cerquozzi che, proprio per questa loro verosimiglianza e soprattutto per essere porzioni di vere e proprie piante vive, è difficile riuscire a denominare nature morte. Le più note tra queste, eseguite dal pittore romano, sono infatti accompagnate da figure di giovani, sempre di sua mano, che colgono la frutta, i fichi, l’uva o le melagrane, così come accade nelle grandi tele del Prado e del Museo Bojimans Van Beuningen di Rotterdam[22].
E anche qui nelle due Nature morte con uva bianca e nera e nelle altre due con Uva, fichi, melagrane e zucche e con Uva, mele cotogne e melagrane della collezione Zeri, la frutta è parte integrante della pianta, come nella Natura morta con uva, cesto di mele e castagne della collezione Rotunno, già Campori, da me riferita sempre al Cerquozzi. Il gruppo di dipinti mi sembra omogeneo sia nella scelta compositiva che stilistica.
Note
Pubblicato in La natura morta di Federico Zeri, a cura di Andrea Bacchi, Francesca Mambelli, Elisabetta Sambo, Bologna, Fondazione Federico Zeri, 2015, pp. 167-177