di Giulia Alberti
Emblematica della concezione di storia dell’arte maturata da Federico Zeri e delle sue qualità di conoscitore, affinate dalla pratica quotidiana sulle fotografie, la fototeca, nella sua coerente organizzazione, non solo riflette gli straordinari risultati delle sue ricerche, ma lascia scorgere anche argomenti di studio soltanto sfiorati dallo studioso, bozze di articoli mai pubblicati, fotografie ancora da studiare[1].
Questa percezione di dialogo continuo e costante con i materiali della fototeca, interrotto dalla morte dello studioso nel 1998, diventa tangibile anche quando ci si confronta con quel gruppo di oltre 2.000 fotografie che costituiscono i cosiddetti Nuclei tematici. Tale sezione riunisce materiali che lo studioso aveva ordinato – certo con l’intenzione di dedicarvi ricerche più specifiche – seguendo non la scansione per aree geografiche, secoli e autori che contraddistingue altri nuclei, ma una classificazione per temi e soggetti rappresentati. Ai Nuclei tematici appartengono le fotografie di Battaglie (868), Paesaggi (1.933), Dipinti su pietra e su vetro (480), Pale della Crusca (153) e Icone (730). Per ampiezza costituisce una sezione a sé stante la raccolta di foto dedicate alla Natura morta (14.400).
Dei nuclei tematici fa parte anche un’interessante raccolta di 214 fotografie di trompe-l’œil, a cui se ne aggiungono due di anamorfosi passate sul mercato antiquario a Roma[2]. Il fondo è costituito nella quasi totalità da stampe alla gelatina ai sali d’argento e diapositive databili tra gli anni Cinquanta e gli anni Novanta del Novecento[3]. La sua importanza, se non nella varietà e antichità delle riproduzioni fotografiche, risiede nel suo valore documentario. Si tratta, infatti, di immagini di opere per la grande maggioranza passate in aste italiane e internazionali, spesso ancora rintracciabili sul mercato antiquario. Solo in piccola parte confluiti in pubblicazioni scientifiche, i dipinti fotografati documentano ampiamente la diffusione di questo particolare genere artistico tra il XVII e il XIX secolo.
"Dei nuclei tematici fa parte anche un’interessante raccolta di 214 fotografie di trompe-l’œil, a cui se ne aggiungono due di anamorfosi passate sul mercato antiquario a Roma"
All’inizio del Seicento, in concomitanza con la definizione dei generi artistici, teorizzata per primo da Vincenzo Giustiniani nel suo Discorso sopra la pittura[4], e l’affermarsi della natura morta, l’arte della ʻpittura che inganna l’occhioʼ, mimesis del reale ed esercizio virtuosistico dell’artista nella rappresentazione illusionistica della realtà, vive una stagione fondamentale, che si esaurisce intorno alla metà del XIX secolo[5].
Il trompe-l’œil, nella sua variante di piccolo formato o da cavalletto, nasce e si diffonde principalmente in area fiamminga, olandese e tedesca – con alcune significative diramazioni in Spagna e soprattutto in Francia nel corso del Settecento – dove saldamente radicata era l’attenzione lenticolare nella descrizione degli oggetti e nella rappresentazione prospettica della realtà[6]. Il gusto per la finzione e il piacere per l’inganno percettivo sono inoltre uno degli aspetti fondamentali dell’estetica barocca. L’uso dello scorcio e della prospettiva illusionistica esalta la genialità creativa e l’abilità tecnica dell’artista, che mira così al coinvolgimento emotivo dello spettatore.
Suscitare la meraviglia e lo stupore nell’osservatore è l’obiettivo principale del pittore di trompe-l’œil, ed è la caratteristica che contraddistingue questo genere artistico dalla pittura di natura morta, di cui pur rappresenta, per così dire, un sottogenere[7]. A differenza del pittore di natura morta la preoccupazione principale dell’artista di trompe-l’œil non è più soltanto l’imitazione perfetta del reale, ma è quella di trasmettere l’illusione dell’oggetto dipinto[8]. L’inganno funziona, cioè, se l’oggetto è percepito come reale dall’osservatore. Per ottenere questo effetto il pittore mette in atto una serie di artifici prospettici che diventano caratteristici del genere: gli oggetti, rappresentati quasi in scala 1:1, occupano tutta la superficie del quadro; lo sfondo, privo di orizzonte, lasciato volutamente indefinito o sbarrato da finte pareti, istituisce un continuum tra lo spazio dipinto e quello reale dove si trova lo spettatore[9].
Caratteristico è anche il repertorio iconografico che concorre a creare l’illusione. Si tratta innanzitutto di oggetti che appartengono, come la natura morta, al registro delle cose ʻsilenzioseʼ, inanimate e di uso quotidiano. Lettere, biglietti, carte, stampe, disposti in ordine solo apparentemente casuale nei cosiddetti quodlibet e pêle–mêle. Pareti di finte assi con appesi dipinti, disegni, incisioni, trofei di caccia, o con mensole su cui sono appoggiati gli oggetti più disparati; ʻangoli di studioʼ con gli strumenti dell’artista o cavalletti con le opere installate, spesso nella forma di trompe-l’œil chantourné[10]. Fino ad arrivare al paradosso della raffigurazione del Quadro girato di Cornelis Norbertus Gijsbrechts (documentato tra il 1659 e il 1672) – del quadro, cioè, visto da dietro – al contempo supporto dell’immagine osservata dallo spettatore e oggetto stesso della rappresentazione[11].
L’effetto di stupore prodotto deriva dall’inganno delle percezioni sensoriali e in particolare dall’ʻinganno dell’occhioʼ, a cui fa seguito l’istinto di toccare gli oggetti illusionisticamente ritenuti reali[12]. Ecco, allora, che la capacità di fingere ad esempio un rilievo, una scultura o la fragilità connaturata ad alcuni materiali (vetri rotti, fogli strappati, pareti tarlate...) diventa misura dell’abilità tecnica e dell’ingegno dell’artista[13], tanto più virtuoso e arguto quanto meglio riesce a «estraniarsi dalla sua creazione»[14], nascondendo il proprio stile a vantaggio dell’illusione.
Per affermare la propria identità il pittore ricorre quindi a caratteristici escamotages, come la firma o le iniziali apposte su biglietti e cartellini, o in calce alle stampe raffigurate nelle opere. Se tuttavia questo è vero, come vedremo, ad esempio per le opere di Andrea Gottardo Remps (1620 ca.-1690 post) o di Carlo Leopoldo Sferini (1652-1698), in altri casi tali scritte non sono da interpretare come le firme degli artisti. Esemplare a questo proposito è il corpus delle opere già attribuite a Benedetto Sartori, nome nel quale si deve riconoscere un committente o un dedicatario dei dipinti piuttosto che il loro autore, oggi identificato probabilmente con Antonio Gianlisi il Giovane (1677-1727)[15]. Seguendo lo stesso criterio, inoltre, la presenza delle firme nelle incisioni raffigurate ha permesso agli studiosi di ipotizzare un’attività come pittori di trompe-l’œil anche per i toscani Stefano Mulinari (1741 ca.-1790 ca.) e Pompeo Lapi (documentato nell’ultimo quarto del sec. XVIII), noti finora solo come incisori. Nei dipinti non firmati, invece, riconoscere la mano dell’artista diventa un rebus da sciogliere con pochi indizi, spesso soltanto attraverso un particolare repertorio iconografico che si ripete, come il modo di delineare le venature del legno delle finte assi, le lacerazioni delle carte, il taglio spaziale e compositivo.
In Italia, invece, dove predomina il gusto per la grande decorazione illusionistico-architettonica, il trompe-l’œil da cavalletto resta limitato a una produzione di nicchia e ʻdilettantescaʼ, sebbene in alcuni casi di grande levatura stilistica.
Numerosi sono i pittori che hanno contribuito alla fioritura del genere fuori dall’Italia documentati nella fototeca di Zeri. Presenti con opere che ne ampliano il catalogo sono, ad esempio, il già citato artista fiammingo Cornelis Norbertus Gijsbrechts (fig. 1), i cui dipinti rappresentano la sintesi e la casistica più esaustiva dei temi iconografici tipici di questo genere, gli olandesi Paulus Willemsz van Vianen (1570-1613) (figg. 2-3)[16], Heyman Dullaert (1636-1684) (fig. 4) e Johannes Leemans (1633 ca.-1688) (fig. 5)[17]. Tra i francesi sono da ricordare Wallerant Vaillant (1623-1677) (fig. 6), Jean–François de Le Motte (documentato tra il 1653 e il 1685), Jean Coustou (1719-1791) (figg. 7-8) e l’ancora sconosciuto E. Hiernault (documentato nel 1766), autore di due bellissimi esempi di ʻquadri giratiʼ alla maniera di Gijsbrechts (figg. 9-10)[18]. Tali testimonianze pittoriche sono tanto più interessanti quanto più arricchiscono una storia collezionistica difficile da ricostruire per l’assenza di dati documentari certi e per l’impossibilità di rintracciare tutti i passaggi delle opere sul mercato artistico internazionale.
In Italia, invece, dove predomina il gusto per la grande decorazione illusionistico-architettonica[19], il trompe-l’œil da cavalletto resta limitato a una produzione di nicchia e ʻdilettantescaʼ, sebbene in alcuni casi di grande levatura stilistica. La distinzione, da un lato, tra artisti spesso affermati nella pittura di natura morta e riconosciuti anche come maestri di trompe-l’œil da cavalletto, e, dall’altro, una nutrita schiera di pittori dilettanti, quasi del tutto sconosciuti alle fonti, emerge molto bene dalle fotografie riunite da Zeri. La dimensione perlopiù amatoriale in cui operavano tali artisti, a cui ora fa da contraltare la costante circolazione sul mercato antiquario dei dipinti di trompe-l’œil, è probabilmente alla base della difficoltà da parte degli studiosi nel tracciare con sistematicità la nascita e la diffusione di questo particolare genere in Italia. Se infatti si eccettuano le schede contenute nei due volumi de La natura morta in Italia[20] e contributi più specifici su singole personalità, manca un repertorio interamente dedicato ai pittori italiani di trompe-l’œil da cavalletto[21].
Partendo dai materiali raccolti da Zeri, si è quindi deciso di presentare una selezione di casi di opere di artisti italiani – o di origine straniera la cui carriera sappiamo però essersi svolta in Italia – attivi tra il XVII e il XVIII secolo. A questa si aggiungono fotografie di dipinti di autori poco noti o di anonimi ancora da identificare[22]. Senza la pretesa di voler esaurire in poche pagine un argomento che solo ulteriori ricerche potranno inquadrare nella sua complessità, questo studio vuole porsi come un’occasione per fare luce su alcune problematiche e offrire nuovi spunti di riflessione, contribuendo anche ad ampliare il catalogo delle opere, spesso esiguo, degli artisti citati. Raramente ricordati in bibliografia, per quanto è stato possibile verificare molti dipinti risultano infatti pubblicati solo in cataloghi di vendite all’asta e vengono qui presentati per la prima volta.
"Nel suo specifico ordinamento tematico questa raccolta riflette indubbiamente l’intenzione di Zeri di riservare uno studio più approfondito ai dipinti che ʻingannano l’occhioʼ, certamente affascinanti per lui che dell’occhio aveva fatto lo strumento principale del suo mestiere di conoscitore"
Le attribuzioni proposte nel testo, pur tenendo conto delle posizioni più recenti della critica, seguono fin dove possibile le indicazioni di Zeri riportate sui versi delle fotografie. Nel suo specifico ordinamento tematico questa raccolta riflette indubbiamente l’intenzione di Zeri di riservare uno studio più approfondito ai dipinti che ʻingannano l’occhioʼ, certamente affascinanti per lui che dell’occhio aveva fatto lo strumento principale del suo mestiere di conoscitore[23]. Tuttavia, a differenza di quanto accade in altri nuclei della fototeca, dove le note autografe di Zeri e di altri studiosi permettono di ricostruire l’avvicendarsi delle proposte attributive e dei passaggi di proprietà delle opere, in questa sezione si nota una frequentazione più discontinua da parte dello studioso, evidente nello scarso numero di annotazioni sui versi. Se conosciute, lo studioso segnala attribuzione e localizzazione dell’opera; più spesso i versi delle foto sono privi di qualsiasi indicazione o riportano solo note anonime. Delle opere passate in asta Zeri trascrive gli estremi della vendita e l’attribuzione con la quale sono presentate: una registrazione quasi meccanica che non sempre lascia scorgere il suo pensiero in merito all’identificazione dell’artista[24]. Quando è stato possibile si è cercato di aggiornare le localizzazioni dei dipinti segnalate da Zeri sui versi delle fotografie[25] e di registrarne i passaggi più recenti sul mercato d’arte internazionale[26].
Per alcune opere vengono infine suggerite delle nuove attribuzioni, ben consapevoli della problematicità che tali proposte presentano in assenza della conoscenza diretta dei quadri originali.
Infine, i criteri impiegati per la soggettazione dei dipinti di trompe-l’œil rispecchiano le scelte adottate per la schedatura del nucleo di Natura morta della Fototeca Zeri[27], e rispondono, in primis, alla necessità di fornire agli studiosi il maggior numero possibile di chiavi d’accesso per condurre ricerche incrociate e rendere fruibili le fotografie online sul database della Fondazione.
Note
Pubblicato in Giulia Alberti, Inganni dipinti. Trompe-l’œil nella Fototeca Zeri, primo numero della collana Nuovi diari di lavoro edito dalla Fondazione Federico Zeri con il contributo di Associazione Antiquari d’Italia, pp. 15-29