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Avv. Prof. Francesco Emanuele Salamone*

I nuovi reati contro il patrimonio culturale: un’occasione mancata

A seguito di un travagliato e lungo iter parlamentare, il 23 Marzo 2022, con la l.n. 22/2022, è entrata in vigore una significativa riforma della disciplina penale in tema di beni culturali, avente – quale scopo dichiarato – quello di ridefinire l’intera materia nell’ottica di un generale inasprimento del trattamento sanzionatorio avverso le forme di aggressione del patrimonio culturale.
In particolare, al fine di realizzare tale obiettivo, il Legislatore si è mosso su quattro direttrici.

La prima, di tipo “politico”: dare maggiore dignità ai reati contro il patrimonio culturale, mediante l’inserimento delle fattispecie, sino ad oggi previste dal d.lgv. 42/04, all’interno del Codice penale, ove è stato creato un apposito titolo, l’ VIII bis, rubricato proprio “Dei delitti contro il patrimonio culturale”.

La seconda, di “politica criminale”: tendenziale inasprimento delle pene, che – in media – sono aumentate del 50%, se non – addirittura – raddoppiate come nel caso dell’esportazione illecita (oggi punita con la reclusione sino ad otto anni!).

La terza, di rango prettamente tecnico-giuridico: introduzione di fattispecie di reato (apparentemente, per la gran parte) nuove.

In particolare, di “nuovo conio” sono certamente:
- il reato di “importazione illecita di beni culturali” (art. 518 decies), secondo il quale commette reato (punito con la reclusione sino a sei anni) chi importi nel nostro Paese beni culturali provenienti da delitto ovvero rinvenuti a seguito di ricerche svolte senza autorizzazione, ove prevista dall'ordinamento dello Stato in cui il rinvenimento ha avuto luogo, ovvero “esportati da un altro Stato in violazione della legge in materia di protezione del patrimonio culturale di quello Stato”.
Tale norma punisce quindi, innovativamente, la condotta di colui il quale faccia entrare nel nostro Paese non solo beni precedentemente esportati illegalmente dall’Italia ma anche beni che siano stati illegalmente esportati da altri Paesi (imponendo, quindi, all’utente di conoscere la legislazione in tema di patrimonio culturale di tutti i Paesi del Mondo o, comunque, di acquisire documentazione, quale quella di uscita da Paesi terzi, che - nella pratica – rappresenta un onere di difficile, se non impossibile, assolvimento);

- il reato di “falsificazione in scrittura privata relativa a beni culturali” (art. 518 octies), secondo il quale chiunque forma, in tutto o in parte, una scrittura privata falsa o, in tutto o in parte, altera, distrugge, sopprime od occulta una scrittura privata vera, in relazione a beni culturali mobili, al fine di farne apparire lecita la provenienza, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Sanzionabile, seppur con una pena minore, è anche chiunque faccia uso della predetta scrittura privata, senza aver concorso alla sua formazione o alterazione;

- il reato di “dichiarazioni mendaci” in tema di cd. “autocertificazioni” (art. 518 undecies, ultima parte), ai sensi del quale è punito con la reclusione sino ad otto anni (!) chi renda “dichiarazioni mendaci al fine di comprovare al competente ufficio di esportazione, ai sensi di legge, la non assoggettabilita' di cose di interesse culturale ad autorizzazione all'uscita dal territorio nazionale”. Si punisce, in altri termini, con la reclusione, colui il quale dichiari il falso in sede di “autocertificazioni” per l’arte contemporanea o per i beni cd. “sotto-soglia”.
Nulla però si dice in merito alla condotta di chi esporti un bene sotto-soglia senza la presentazione dell’autocertificazione, atteso che:

- per un verso, il primo comma del nuovo art. 518 undecies, afferente l’esportazione senza titolo, ha continuato ad “ignorare” tale nuovo “titolo” per l’esportazione, circoscrivendo la condotta penalmente rilevante solo ai casi di esportazione senza “Attestato di libera circolazione” o senza “Licenza di esportazione” (senza quindi nulla dire in merito ai casi di esportazione senza “autocertificazione” prevista dal nuovo art. 68, comma IV° bis);

- per altro verso, il nuovo art. 518 undecies, ultima parte, come visto, punisce solo chi renda “dichiarazioni mendaci” senza dire alcunchè in merito al (diverso) caso del soggetto che non faccia alcuna “autocertificazione” e – ciononostante – proceda all’esportazione del bene “sotto-soglia”.

Per l’effetto, visto il silenzio della norma incriminatrice in merito alla sanzionabilità dell’esportazione sine titulo (l’autocertificazione, nella specie) di tale “diversa “categoria” di beni cultuali, è da ritenere - attesi i principi di tassatività e determinatezza della norma penale (nullum crimen sine lege) ed il divieto di analogia in campo penale - che la condotta sopra descritta (esportazione di un bene “sotto-soglia” senza “autocertificazione”) non sia punibile neanche ai sensi della nuova normativa appena varata, che – come visto – non prevede alcuna norma a contrasto di tale condotta.
Quanto alle altre fattispecie previste dalla Riforma del 2022, si tratta:
- o di disposizioni già esistenti con specifico riferimento ai beni culturali (si pensi, alla contraffazione d’opere d’arte; alle violazioni in tema di alienazione di beni culturali; all’esportazione illecita), per le quali vi è stato un deciso inasprimento delle pene;
- o di disposizioni, di parte generale - quali la ricettazione, il riciclaggio, l’autoriciclaggio, il furto, l’appropriazione indebita, devastazione e saccheggio – rispetto alle quali sono state previste “specifiche disposizioni” laddove oggetto materiale delle condotte siano “beni culturali”.

La quarta direttrice attraverso la quale si struttura la riforma del 2022 è invece di rango procedurale ed ha ad oggetto due importanti novità: l’applicazione anche ai reati contro il patrimonio culturale della confisca allagata e della possibilità di effettuare operazioni “sotto copertura”.

Ciò premesso, passando adesso ad una valutazione critica della nuova disciplina in materia di reati contro il patrimonio culturale, deve accogliersi – in linea di massima - con favore l’idea di una riforma del sistema sanzionatorio a contrasto delle diverse forme di aggressione del patrimonio culturale. Ed invero, le pene previgenti erano certamente poco severe rispetto al disvalore delle condotte aventi ad oggetto il patrimonio culturale.
L’eccessiva eseguità delle pene previgenti portava inoltre ad un altro effetto deleterio ove si consideri che il decorso del termine prescrizionale viene ancorato dagli articoli 157 e ss. c.p. non al momento dell’accertamento del fatto di reato, bensì a quello della sua consumazione.
Ebbene, se si considera che, nei reati contro il patrimonio culturale, il momento di consumazione dell’illecito molte volte si colloca in un arco di tempo assai lontano da quello della commissione del fatto criminale, emerge con tutta evidenza che il tradizionale sistema di prescrizione dei reati (in particolare, quelli contravvenzionali) indebolisca fortemente l’ “effettività” della tutela penale del bene culturale.
Sotto tale profilo è quindi da accogliere con favore l’idea di un generico inasprimento delle pene, cui consegue non solo un effetto di maggiore deterrenza (anche in ragione di un sempre maggiore accesso, per gli inquirenti, a più incisivi strumenti investigativi, quali le intercettazioni telefoniche ed ambientali, prima possibili solo in casi particolari) ma anche la possibilità di evitare che gran parte dei processi aventi ad oggetto i reati contro il patrimonio culturale si concludano, come accadeva sino ad oggi, con la “prescrizione”.

Tuttavia, a parere di chi scrive, la novella del 2022, se letta con maggiore attenzione e con la mente scevra dal concetto del “politicamente corretto”, non è da considerarsi una rosa senza spine.
In primo luogo, infatti, sotto il profilo della tecnica normativa va evidenziato che sono state introdotte nuove fattispecie di reato aventi tutte ad oggetto specifico i “beni culturali”, senza tuttavia definire, una volta per tutte, cosa si intenda, dal punto di vista penale, per “bene culturale”, con l’effetto che neanche la nuova disciplina è riuscita a circoscrivere il suo esatto perimetro di applicazione, non consentendo in tal modo all’interprete (i) di individuare, con la dovuta certezza quando si parla di nome penali, quali siano esattamente i beni (e, quindi, i comportamenti) oggetto di tale disciplina sanzionatoria e, per l’effetto, (ii) di capire con esattezza quali siano i beni oggetto di reato e quali no!
Com’è noto, infatti, in materia di diritto penale dei beni culturali, non vi è concordia nel ritenere cosa debba intendersi per “bene cultuale”.
Ed invero, secondo una parte della giurisprudenza, rientrerebbero in tale concetto sono i beni “dichiarati di interesse culturale particolarmente importante” (alias i beni notificati), atteso che solo questi ultimi possono essere ritenuti “beni culturali” ai sensi dell’art. 10 del d.lgv. 42/02 (tesi del patrimonio culturale dichiarato).
Ne deriva pertanto che solo tali beni sarebbero da ritenersi oggetto di condotte sanzionabili penalmente.

Secondo, invece, altra parte della giurisprudenza, sarebbero – ai fini penalistici – “beni culturali” anche quei beni che – a prescindere dalla dichiarazione di interesse culturale particolarmente importante – godrebbero di un interesse culturale “oggettivo ed intrinseco”.
Preso atto dell’esistenza di tesi diametralmente opposte in merito a cosa debba intendersi – ai fini penalistici – per “bene culturale”, allo scopo di capire funditus l’importanza di tale dibattito (e rendersi così conto della gravità dell’occasione mancata con la riforma del 2022), è utile esaminare quali siano le conseguenze, sul piano pratico, dell’adesione alla tesi della tutela del bene culturale dichiarato o alla tesi opposta della tutela del bene culturale reale.
Ebbene, aderendo alla prima tesi (tutela del bene culturale dichiarato), e – quindi - circoscrivendo la tutela ai soli beni il cui valore artistico sia oggetto di previa dichiarazione, si assicurerebbe, da un lato, maggiore certezza (valore, quest’ultimo fondamentale in materia penale); mentre, dall’altro, si rischierebbe di privare di protezione tutti quei beni privati sprovvisti di dichiarazione ma, comunque, dotati di un intrinseco valore culturale (si pensi all’opera di un’artista importante posseduta da un ignaro privato).
Viceversa, aderendo alla tesi della tutela del bene culturale reale, si allargherebbe il raggio d’azione della tutela penale del patrimonio culturale, ricomprendendovi anche quei beni privati sforniti di dichiarazione (anche perché “sconosciuti” all’Autorità), ponendo in essere un ampliamento della nozione di bene culturale fornita dall’art. 10, III° comma, d.lgv. 42/04.
Tuttavia, assicurare una tutela penale del bene culturale reale se, prima facie, può apparire più suggestivo in quanto – così facendo – si garantirebbe una tutela penale anche in favore di beni comunque dotati di un intrinseco valore culturale (a prescindere dal requisito formale della dichiarazione di interesse culturale), ad un’analisi più approfondita, tale soluzione è – a nostro avviso – invece da ritenere non del tutto condivisibile in un’ottica di tutela penale.

Orbene, la piena adesione alla tesi della tutela del patrimonio culturale reale aprirebbe (pericolosamente) la strada alla pressoché totale discrezionalità del Giudice o dell’interprete (in netto contrasto con i principi di tassatività previsti in materia penale) in merito a questioni di fondamentale importanza.
In particolare, a titolo esemplificativo, per poter valutare – in assenza di una dichiarazione ex art. 13 d.lgv. 42/04 - se un bene possa essere o meno considerato culturale, su quali parametri dovrà basarsi il giudizio sull’esistenza dell’ interesse rilevante?
O ancora, a chi spetterebbe la valutazione della particolare importanza, vista l’impossibilità di pretenderla dal cittadino qualsiasi, chiamato non solo a classificare un proprio bene ma anche a stabilirne il livello di importanza?
Ed inoltre, a quante ed a quali stravaganze giudiziarie si arriverebbe mediante l’istituzionalizzazione della figura di un “judex in re propria”? Come si concilierebbe tale figura con i principi di tassatività e riserva di legge previsti dal nostro ordinamento?

Secondo i sostenitori della tesi della tutela del patrimonio culturale reale, i dubbi sopra esposti potrebbero essere risolti affidando al Giudice (o al perito nominato dal Tribunale) il giudizio (processuale) circa la culturalità o meno del bene oggetto materiale di una determinata condotta.
Tale soluzione appare però, secondo la nostra opinione, non immune da severe critiche, atteso che – nella gran parte dei casi pratici – i processi penali in tema di “beni culturali” hanno ad oggetto condotte ricadenti su beni quali “cocci”, beni librari, monete antiche, in relazione ai quali è assai difficile esprimere un unanime giudizio di culturalità.
Difficoltà di giudizio aggravata dall’assenza di criteri univoci e specifici nel valutare la culturalità di un determinato bene: troppo generiche sono infatti le circolari ministeriali adottate negli anni.

In altri termini, trasponendo quanto appena detto nella realtà processuale italiana, si potrebbe verificare che - con riferimento alla medesima condotta avente ad oggetto lo stesso bene (ad esempio l’esportazione senza titolo di una moneta apula o di un bene librario riprodotto in decine di copie) – per un Giudice (o per il perito da quest’ultimo nominato), tale condotta debba ritenersi penalmente lecita, non potendo considerarsi l’oggetto materiale della condotta quale “bene culturale”; per un altro Giudice, invece, rivestendo tale bene “valore culturale intrinseco”, l’esportazione della cosa in assenza di valido titolo dovrà ritenersi penalmente perseguibile: stessa condotta, stesso bene oggetto di valutazione, due verdetti diametralmente opposti!

In poche parole, così facendo, si aprirebbe il campo a vere e proprie forme di relativismo giudiziario, in netto contrasto con i principi costituzionali in tema di responsabilità penale.
Attesa la suesposta oggettiva indeterminatezza di cosa debba intendersi – sotto il profilo penale – per “bene culturale”, sarebbe stato quindi fortemente auspicabile che il Legislatore, rimettendo mani alla materia, avesse dedicato maggiore attenzione anche alla definizione (una volta per tutte) del concetto penalistico di “bene culturale”, fornendo una precisa definizione di “bene culturale” da applicarsi in ambito penale, in quanto è inutile inasprire le pene e prevedere nuove fattispecie di reato se poi, come nella specie, non si circoscriva il perimetro di applicazione di tali norme e, conseguentemente, come detto, non si chiarisca esattamente cosa sia reato e cosa no o, meglio, quali siano i beni concretamente presi a riferimento da tali norme!

La Riforma del 2022 ha quindi mancato nel momento in cui non ha chiarito cosa debba intendersi per “bene culturale” ai fini penalistici, rimettendo tale valutazione non ad una preventiva e precisa definizione normativa (come, per il vero, avrebbe imposto il principio di tassatività previsto dall’art. 1 del Codice Penale) ma alla discrezionalità del Giudicante, con i deleteri effetti di relativismo giudiziario sopra esposti.

Altra contro-indicazione connessa alla Riforma del 2022 concerne l’eccessivo aumento delle pene, che, seppur in linea di principio condivisibile per come sopra detto, in una visione d’insieme del sistema, appare poco proporzionato rispetto ad altri comportamenti di pari o, addirittura, maggiore rilevanza sociale (si pensi, ad esempio, che il riciclaggio di un bene culturale è, con la nuova disciplina, punito con la reclusione sino a quattordici anni, ossia quasi il triplo rispetto ad un omicidio colposo).
Ebbene, è chiaro a tutti che il condivisibile intento del legislatore sia stato quello di inasprire le pene per meglio contrastare le forme di aggressione del nostro patrimonio culturale, ma sarebbe stato più opportuno parametrare le nuove pene all’interno del quadro generale, al fine di evitare di creare ingiustificabili sproporzioni sanzionatorie.
Inoltre, tale eccessivo innalzamento delle pene rende, di fatto, meno fruibili strumenti deflattivi del processo penale, quali il rito abbreviato o il “patteggiamento”, con conseguente intasamento della già lenta macchina giudiziaria.
Altro profilo critico è poi quello connesso alla previsione sanzionatoria per i reati commessi all’estero.
Ed invero, a fronte delle disposizioni di cui agli artt. art. 7 e ss. del codice penale, relativi ai reati commessi all’estero, laddove è ben specificato il diverso trattamento processuale per le varie tipologie di delitti, dello status di cittadino e di straniero, e delle condizioni di procedibilità davanti all’autorità giudiziaria italiana, l’art. 518 undevicies c.p. fa genericamente riferimento ad un “fatto commesso all’estero”, facendosi intendere quindi che tale fatto possa essere commesso sia dal cittadino che dallo straniero e non specificando se trattasi di delitto comune ovvero del delitto di cui al n. 5 dell’art. 7 c.p.
Ciò peraltro crea difficoltà tanto operative che processuali perché un reato commesso all’estero - seppure in danno del patrimonio culturale nazionale (concetto, che – come sottolineato anche dall’Associazione Nazionale Magistrati – è “abbastanza evanescente e non espressamente coincidente con la definizione fornita dall’art. 10 e ss. del D.lgs. 42/2004), come, ad esempio, beni di artisti italiani di proprietà controversa che si trovano all’estero o al contrario beni di artisti stranieri che si trovano in Italia – potrà ingenerare pericolose sovrapposizioni tra il processo italiano ed il doveroso intervento dell’autorità giudiziaria territorialmente competente.
Non in linea con la recente politica di depenalizzazione appare inoltre l’introduzione dell’art. 518 octies c.p., che fa rivivere il falso in scrittura privata relativa a beni culturali, nonostante l’abrogazione dell’art. 485 c.p. avente ad oggetto la medesima condotta.
In altri termini, si fa entrare da una finestrella ciò che il Legislatore aveva deliberatamente fatto uscire dal portone.

Infine, dal punto di vista operativo, appare affetta da un’insanabile indeterminatezza la possibilità di prevedere la cd. “confisca per equivalente” in presenza di condanne o patteggiamenti per reati in materia di patrimonio culturale.
Ed invero, il nuovo articolo 518 duodevicies prevede, al secondo comma, che “nel caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per uno dei delitti previsti dal presente titolo, è sempre ordinata la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persone estranee al reato”.
La stessa norma, al comma successivo, prevede tuttavia anche che “quando non e' possibile procedere alla confisca di cui al secondo comma, il giudice ordina la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilita' delle quali il reo ha la disponibilita', anche per interposta persona, per un valore corrispondente al profitto o al prodotto del reato” .
In altri termini, è prevista la possibilità di procedere al sequestro delle somme di danaro o beni “per un valore corrispondente” ai beni che siano il profitto o il prodotto del reato.
Tuttavia, in materia di beni artistici, il cui valore è estremamente volatile per definizione (con conseguente oggettiva difficoltà di individuazione del prodotto o del profitto del reato), la domanda sorge spontanea: a quale valore “di partenza” bisognerà fare riferimento per individuare il “valore equivalente” da sottoporre a sequestro?

A quello del bene al momento della condotta criminosa? A quello del bene al momento dell’accertamento del reato? A quello del bene al momento della condanna definitiva?

Ed ancora: chi stabilirà quale sia il “valore equivalente”? secondo quali parametri? quale sarà il ruolo del reo nella determinazione di tale valore equivalente?

Tutte domande, queste, alle quali il Legislatore non ha dato risposta e che costringeranno quindi la giurisprudenza a ricercare soluzioni ortopediche a spese di malcapitati utenti che, ancora una volta, si troveranno a fare le cavie a causa della superficialità normativa del nostro Legislatore.

In conclusione, a parere dello scrivente, la Riforma dei reati contro il patrimonio culturale rappresenta un’occasione mancata, in quanto il Legislatore – pur partendo da condivisibili e lodevoli propositi – non è tuttavia riuscito a dare una risposta univoca e chiara (concetti essenziali quando si parla di diritto penale!) alle predette tematiche di vitale importanza per l’applicazione concreta di tale Riforma, che si presenta – in ultima analisi – a causa di tali deficit, come una “grande incompiuta”, anche perché non coordinata con altre importanti Riforme, quale quella della circolazione dei beni artistici, di cui il nostro Paese avrebbe necessità impellente al fine di mettersi finalmente al passo dell’Unione Europea.

*Avvocato specializzato in diritto penale dei beni culturali
Professore a c. di Legislazione di beni culturali
Università La Sapienza di Roma