fondazione zeri

Barbara Agosti

Vasari e Genga

Nella prima edizione delle Vite vasariane (1550), a Genga, benché ancora in vita, era comunque riservato un medaglione conciso ma molto elogiativo, inserito entro la biografia di Dosso e Battista Dossi, e innestato sul ricordo del contributo dei due fratelli ferraresi all’apparato decorativo dell’Imperiale1 Lì Vasari dichiarava infatti che, avendone «la occasione», era suo «debito» richiamare ai lettori le «rare virtù» di Girolamo, che l’aretino, di quarant’anni più giovane, conosceva almeno dall’incontro a Firenze nel 15362. Questo medaglione torrentiniano di Girolamo non fa cenno alcuno alla sua formazione, e si apre evocando l’amicizia di vecchia data tra lui e il conterraneo Raffaello, che lo avrebbe «aiutato molto» nella preparazione della Resurrezione di Cristo (fig. 2) dipinta per «la Compagnia dei Senesi in via Giulia»; questa, nonostante rimonti al principio degli anni Venti, viene dunque menzionata come prima opera di Genga3.

Data la genericità con cui Vasari la qualifica, definendola semplicemente «opera certo molto lodata», viene addirittura da chiedersi se la conoscesse dal vero. Del resto nella Torrentiniana anche l’unico altro riferimento alla chiesa della comunità senese a Roma appare sfuggente – si tratta dell’accenno ad alcune imprecisate «cose» eseguite in Santa Caterina da Baldassarre Peruzzi, «cose» che poi nella Giuntina Vasari stesso dirà essere un cataletto, a quel punto attribuito una volta a Peruzzi e un’altra a Timoteo Viti – un pasticcio che non a caso gli verrà aspramente rimproverato da Giulio Mancini4

Il breve profilo di Genga delineato nel 1550 prosegue rammentandone l’attività nelle Romagne e in particolare il polittico di Cesena (fig. 1), che Vasari aveva potuto vedere ancora integro durante il proprio soggiorno tra Rimini e Ravenna nel 1547-1548, va avanti con un brano dedicato ai rapporti di stretta fedeltà che legavano Genga a Francesco Maria della Rovere, e attraverso questo passaggio arriva rapidamente al ricordo del cantiere architettonico e decorativo dell’Imperiale, dopo di che il medaglione si conclude con un paio di altre iniziative urbinati: il progetto per la tomba di Francesco Maria, dietro commissione di Guidubaldo II, su disegno di Genga, affidato per la messa in opera a Bartolomeo Ammannati, e di cui Vasari aveva visto i marmi in lavorazione a Firenze; e la chiamata ad Urbino di Battista Franco, pure avvenuta su impulso di Girolamo, per affrescare «la volta della cappella maggiore del duomo», ciclo che fu compiuto nel 1546 e di cui restano solo frammenti5.

Tale scarno lotto di notizie su Genga e la corte roveresca dipende verosimilmente dal viaggio che Vasari fece ad Urbino nel 1548, all’indomani delle nozze tra Guidubaldo e Vittoria Farnese, e che è pure l’unico soggiorno urbinate dell’autore prima della stampa della Torrentiniana.

Dalla prima edizione del libro usciva dunque un’immagine di Genga come versatile e apprezzato artista cortigiano affine a quella di Giulio a Mantova – il modello insomma che il giovane Vasari stesso perseguiva allora strenuamente, benché non troppo fruttuosamente, rimanendo piuttosto in balía della disponibilità di committenza degli ordini religiosi. Quando appunto la stabilizzazione di Giorgio alla corte medicea era ancora cosa di là da venire, e la sua precarietà ancora grande, il mecenatismo di Guidubaldo II era apparso insieme a lui e al suo mentore Pietro Aretino un porto al quale guardare con vive speranze, e il duca di Urbino era stato infatti da loro omaggiato nel 1542 con l’invio di repliche vasariane dalle invenzioni michelangiolesche di Leda e di Venere e Amore e con la pubblicazione di sperticate lodi da parte di Pietro6.

A monte dell’excursus su Genga ‘siringato’ da Vasari nella biografia dei Dossi in un momento ormai molto inoltrato della redazione del testo della Torrentiniana, stava anche la crescente fama dell’artista urbinate nel corso degli anni Quaranta. Ad attestarla sono per esempio gli elogi tributati da Pietro Bembo a Girolamo «grande e vero architetto» nella lettera alla duchessa Eleonora del dicembre 1543, ma soprattutto voci cognite a Vasari come quelle di Sebastiano Serlio, di Pietro Aretino stesso, o di Leandro Alberti7.

Nel terzo libro delle Lettere, edito nel 1546, l’Aretino aveva incluso una propria encomiastica missiva indirizzata a Girolamo quale artista di fiducia dei signori di Urbino, datata al gennaio di quell’anno. Lì dichiarava di nutrire per Genga un profondo affetto determinato da due fattori, «il merito vostro al mondo» e «la conoscenza vostra in Roma» (espressione che allude forse ad un incontro tra loro avvenuto quando entrambi si trovavano a Roma nei primi anni Venti), auspicava di potere vedere presto «le machine edificate in su gli exempi di voi» e ribadiva che nessuno sorpassava allora Girolamo «di fama ne l’antica architettura»8

La riconfigurazione di Genga nel sistema della Giuntina è radicale. A Girolamo, al figlio Bartolomeo e al genero Giovan Battista Belluzzi detto il Sammarino viene ora dedicata un’articolata biografia collettiva, collocata entro la nuova sezione inserita dopo la Vita di Perino del Vaga e prima di quella di Michelangelo: e segnatamente tra la Vita di Simone Mosca scultore et architetto e la Vita di Michele Sanmicheli, una collocazione che dice quanto a questo punto per Vasari Genga contasse eminentemente come architetto – e architetto, proprio come Giorgio, senza esserlo per davvero.

Il profilo giuntino dell’artista è assai più dettagliato e ricco di notizie, ma insieme irto di incongruenze fuorvianti. Alla base della cospicua espansione del medaglione tracciato nella Torrentiniana ci sono i sopralluoghi compiuti da Vasari a Urbino, a Pesaro, a Senigallia e nelle Romagne durante il massacrante viaggio di aggiornamento della primavera 1566, c’è la consultazione di fonti prima sconosciute come gli «scritti» di Genga che egli cita più volte affermando di averli conosciuti in casa degli eredi dell’artista o come il trattato sulle fortificazioni scritto dal Belluzzi e visto da Vasari presso l’architetto fiorentino Bernardo Puccini9; e ci sono le notizie ottenute direttamente dagli informatori, come Bartolomeo Genga, il Belluzzi, o Baldassarre Lancia, gli ultimi due passati intanto al servizio di Cosimo.

Questa del clan Genga è una delle poche biografie della Giuntina prive del prologo moraleggiante e che invece entrano subito in medias res, nello specifico con le indicazioni, del tutto assenti nel 1550, riguardanti la formazione di Girolamo accanto a Signorelli – una prima integrazione che va considerata insieme al riposizionamento dello stesso Signorelli, la cui Vita nel 1568 va a sostituire quella di Perugino come traguardo conclusivo della seconda età e prodromo della terza. In tale operazione è implicata una lettura degli sviluppi della Maniera moderna assai più complessa, anche in termini di geografia artistica, di quanto non fosse nella Torrentiniana, dove la transizione inesorabilmente progressiva dalla diligenza quattrocentesca di Perugino alla personalità rifondante di Leonardo era ancora ancora tutta improntata alla linea evolutiva della pittura additata da Paolo Giovio.

In ragione del più robusto impianto filologico raccomandato in generale da Borghini a Vasari per la seconda versione del libro, entrano una serie di riscontri positivi, innanzitutto la segnalazione degli estremi biografici di Girolamo, 1476-1551, che Vasari poteva ricavare dalla lapide un tempo leggibile sulla tomba dell’artista nel Duomo di Urbino10. Tuttavia, le molte importanti indicazioni che Vasari fornisce qui sulla primissima attività di Girolamo nel guscio di Signorelli – quella che Annamaria Petrioli ha definito efficacemente «la preistoria» di Genga pittore – non trovano corrispondenza nei tanti aggiornamenti apportati alla versione giuntina della Vita di Signorelli, che sono interessati a tutt’altri aspetti11. Si tratta di un’ennesima conferma della scalatura di tempi che intercorse tra la revisione del testo della prima e della seconda età delle Vite, che Vasari e Borghini condussero entro il 1564, e la revisione e il riassetto del testo della terza età, che invece proseguirono oltre il viaggio del 1566, fin dentro il 1567 e finché fu possibile.

Segue immediatamente un passo volto a contestualizzare la genesi dell’amicizia di Girolamo con Raffaello, che invece nella Torrentiniana era introdotta come un dato di fatto a proposito della Resurrezione, il ricordo cioè dei «tre anni in circa» trascorsi con Perugino, «nel medesimo tempo, che con il detto Pietro stava il divino Raffaello da Urbino, che di lui era molto amico», un riferimento che nella periodizzazione vasariana rimanda alla stagione della pala Oddi e della Crocifissione Mond, intorno al 150312; se così fosse, il periodo accanto a Perugino andrebbe incuneato, secondo le cognizioni odierne, nel corso della campagna decorativa della Cappella Nova del Duomo di Orvieto, pressoché conclusa entro il 1503, e a cui Genga, secondo Vasari, partecipò attivamente a fianco di Signorelli13. Le nuove indicazioni sulla formazione di Girolamo proseguono con la menzione del «tempo assai» passato a studiare a Firenze (un’esperienza perciò apparentemente sincrona a quella di Raffaello), e degli «anni e mesi» trascorsi a Siena al servizio di Pandolfo Petrucci, stagione che gli studi recenti hanno circoscritto tra il 1508-1509, quando Genga era ancora operoso nell’orbita stretta di Signorelli, e il 1511, quando andava condividendo con Sodoma l’apertura a nuove, più moderne sollecitazioni14.

Da questo punto in avanti la Vita prende a svilupparsi con un notevole disordine nella cronologia e nei dati storici, che è stato spesso giustamente rilevato dagli studi ma del quale bisogna con pazienza dipanare gli effetti.

Un primo nodo riguarda il ritorno di Girolamo a Urbino, che Vasari colloca strampalatamente dopo la morte di Pandolfo Petrucci, occorsa nel 1512, e tuttavia al tempo di Guidubaldo di Montefeltro, scomparso nel 1508, e qui, dentro questa cornice sballata, viene ricordata quella che per l’aretino doveva essere la prima opera sicura di Girolamo in autonomia da Signorelli, ovvero la decorazione della cappella del vescovo Giovanni Pietro Arrivabene nel Duomo urbinate, eseguita insieme al più anziano Timoteo Viti e già evocata infatti nelle pagine dedicate a Viti all’interno della biografia giuntina intitolata a Vincenzo Tamagni, un ciclo documentato alla data 1504, perduto, e pertinente ad una fase di stretta collaborazione tra i due artisti15. E ancora Vasari accenna alle «scene et apparati» realizzati da Girolamo per Guidubaldo, da cui traspariva il suo «gran principio di architettura»16. È questa la frase da cui si è inferito che Genga avesse preparato la messa in scena a Urbino nel 1506 dell’ecloga Tirsi di Baldassarre Castiglione, ma niente lo prova, così come resta sí molto plausibile ma non dimostrato che a lui spettino le scenografie della Calandria del Bibbiena per lo spettacolo del 151317.

Dopo di che, impropriamente come nel medaglione torrentiniano, si salta ex abrupto alla pala romana di Santa Caterina (fig. 2), a proposito della quale scompare la notizia fornita nel 1550 dell’assistenza prestata da Raffaello a Girolamo, mentre permane il riferimento al giudizio sul valore di quest’opera espresso da «quelli che sono della professione»18. Di fatto, la collocazione cronologica che viene implicitamente suggerita sarebbe dissestatissima, addirittura entro il primo decennio. Qui per la prima volta Vasari accenna agli «scritti» di Girolamo consultati presso i suoi eredi a Urbino, e in particolare ad un libro dedicato alle «anticaglie» di Roma, del quale pare essersi persa ogni traccia (e che è probabile risalisse al periodo passato a Roma da Genga nei primi anni Venti)19.

A questo punto però la biografia si intrica definitivamente in un gomitolo di errori sulla genealogia dei signori di Urbino, spiegabile, penso, solo con l’estrema frettolosità con cui alcune porzioni della terza età della Giuntina vennero approntate per la stampa. Nella narrazione vasariana, infatti, cadono qui la morte di Guidubaldo, la successione del giovane Francesco Maria della Rovere e le nozze di questi con Eleonora Gonzaga – un evento che risale in realtà al 1509, al tempo cioè in cui Genga era a Siena–, sicché il racconto riprende desultoriamente da tale momento, ricordando come il nuovo duca avesse sùbito molto adoperato Genga «in far archi trionfali, apparati e scene di commedie, che tutto fu da lui tanto ben ordinato e messo in opera, che Urbino si poteva assimigliare a una Roma trionfante», righe dove sembra riecheggiare la celebrazione di Genga scenografo fatta da Serlio nel volume del 154520.

Di qui, è alle vicende di Francesco Maria che Vasari aggancia il soggiorno di Genga a Cesena e l’esecuzione dell’ancona per la chiesa di Sant’Agostino, affermando che l’artista avrebbe seguìto il duca durante l’esilio a Mantova imposto dalla conquista di Urbino da parte di Lorenzo de’ Medici avvenuta nell’estate del 1516, mentre come è noto il contratto di commissione del polittico stipulato a Cesena il 12 settembre 1513 alla presenza di Girolamo per un verso obbliga a svincolare l’incarico dalle traversie di Francesco Maria, e per l’altro attesta una gravitazione di Genga, immediatamente precedente, su Firenze, indispensabile del resto per spiegare almeno alcune componenti del linguaggio del dipinto21. D’altra parte è a partire da questo cenno fornito da Vasari che si è ipotizzata negli studi una presenza di Genga a Mantova intorno al 1516-1518, quando cioè Francesco Maria effettivamente si riparò alla corte gonzaghesca, e che andrebbe ad ogni modo incastrata durante gli impegni per Cesena e Forlì. Ma non è da escludere che Vasari avesse piuttosto a sua volta dedotto tale passaggio mantovano di Genga dal soggetto dell’affresco veduto sulla volta della sala Grande dell’Imperiale con il Giuramento di Sermide (fig. 3), episodio accaduto nel gennaio 1517 appunto nella campagna vicino a Mantova, ben riconoscibile sullo sfondo a destra dal Sant’Andrea albertiano.

Nella Giuntina l’ancona di Cesena (fig. 1) viene descritta assai più analiticamente che nella Torrentiniana, e la disamina dell’attività di Genga nelle Romagne si amplia ora a comprendere «altre opere», innanzitutto la decorazione della cappella del medico Bartolomeo Lombardini nella distrutta chiesa di San Francesco a Forlì, per la quale Vasari ricorda più avanti nella biografia di Genga la presenza accanto a lui di Francesco Menzocchi, e altrove nel libro la collaborazione tra Genga e Timoteo Viti22.

Per questo ciclo, perduto, la cui commissione è ancorata dai documenti al 1518, Vasari riferisce un’erronea data 1512, e tuttavia penso sia proprio questo errore a dimostrare una sua conoscenza de visu della cappella forlivese; il 1512 è infatti l’anno di morte del committente, che si leggeva sull’epigrafe del suo monumento sepolcrale, prova giovanile dello scultore faentino Pietro Barilotto, di cui restano il sarcofago al Museo Jacquemart- André, qualche altro frammento e antiche descrizioni23.

Dal momento che per Vasari il periodo romagnolo di Genga coincide e si spiega con l’esilio di Francesco Maria, il ritorno del duca nel suo stato, avvenuto nel 1519 e formalizzato nel 1521, innesca pure il rientro di Girolamo ad Urbino e l’avvio del cantiere architettonico e decorativo dell’Imperiale, che viene trattato sviluppando i cenni già compresi nella prima edizione delle Vite.

Rispetto alla Torrentiniana, il racconto dei lavori per la villa è filtrato nella Giuntina dalle recenti esperienze di Vasari stesso come regista della trasformazione di Palazzo Vecchio in reggia principesca, esperienze che diventano la pietra di paragone su cui misurare le lodi tributate all’inventività di Genga sia per l’Imperiale sia per le sue altre architetture a Pesaro e altrove nel ducato. Così, quelle che nel 1550 erano semplicemente «bellissime fabriche» diventano nel 1568 una «fabrica bellissima e bene intesa, piena di camere, di colonnati e di cortili, di loggie, di fontane e di amenissimi giardini», tale per cui «da quella banda non passano prencipi che non la vadano a vedere»24. È interessante ragionare sulle pur poche varianti tra Torrentiniana e Giuntina riguardo ai cicli decorativi avviati nell’ Imperiale vecchia intorno al 1529-1530 dietro «ordine e disegno» di Girolamo, a cominciare dalla precisazione cortigiana introdotta nel 1568 secondo cui il tema della decorazione è costituito appunto da «istorie e fatti del duca»25. Il nucleo delle notizie e dei nomi dei pittori coinvolti resta sostanzialmente quello trasmesso nel 1550, ma con alcune differenze che ancora una volta dipendono dall’evoluzione di Vasari come efficiente impresario e insieme dagli sviluppi dei suoi pensieri sulla tradizione del modello raffaellesco di bottega, che tanto per lui aveva contato e continuava a contare.

I maestri nominati restano dunque gli stessi citati nella Torrentiniana – Raffaellino del Colle, Menzocchi, Camillo Capelli, i Dossi e Bronzino, ma l’ordine è un po’ cambiato e soprattutto ciascuno di questi artisti riceve una qualifica delle rispettive specialità. E qui si ha l’impressione che Vasari legga ora il cantiere dell’Imperiale secondo lo schema di lavoro fissato dalle Logge leonine, con Raffaellino e Menzocchi «pittori di buona fama» nel ruolo di Giulio e di Giovan Francesco Penni, Camillo Mantovano «in far paesi e verdure rarissimo» nel ruolo di Giovanni da Udine, i lombardi Dossi celebri «massimamente per far paesi» a reincarnare malamente Polidoro, e il giovane fiorentino Bronzino nella parte di Perino26. E d’altronde il nuovo apparato decorativo concepito per la residenza di Francesco Maria e di Eleonora si misurava consapevolmente, ancorché con mezzi ridotti, con la rielaborazione dei prototipi raffaelleschi romani in corso allora a Mantova e a Genova. Dalle menzioni riservate a questo cantiere in altri punti del testo giuntino è stata ricavata una sorta di cronologia interna. Nella nuova biografia miscellanea in cui è ora compresa la Vita dei Dossi, Vasari specifica infatti che questi sopravvennero solo dopo che Menzocchi, Raffaellino «e molti altri» già avevano realizzato «in quel palazzo molte pitture», indicazione da mantenere comunque entro il 1531, quando i due pittori ferraresi sono documentati a Trento al servizio del vescovo Bernardo Cles27; mentre le menzioni dell’attività svolta da Bronzino all’Imperiale contenute nella Vita di Pontormo e in quella degli Accademici fiorentini fanno espresso riferimento all’arco di tempo compreso tra l’estate 1530 e la primavera 153228.

Per quanto attiene i canali d’informazione cui lo storiografo poteva attingere, lo stesso Raffaellino, anche se a Vasari non interessò evidentemente spremerlo più di tanto né più di tanto gli lascia spazio nelle Vite, avrebbe potuto essere un referente privilegiato, data la sua prolungata successiva attività nella galassia vasariana. Raffaellino era rimasto a fianco di Giulio Romano fino alla partenza di questi per Mantova; nell’aprile del 1524, Giulio, stilando a Roma il proprio testamento, lo aveva nominato erede di tutti i suoi materiali e strumenti di lavoro, ad eccezione della raccolta di antichità29. Ma diversamente da quanto si riteneva in passato sulla base di un cenno di Vasari contenuto nella Vita del Doceno, sappiamo oggi che il discepolo non seguì Giulio alla corte dei Gonzaga, e che da Roma Raffaellino rientrò direttamente a Borgo San Sepolcro, dove nella primavera del 1525 aveva già messo in opera la Resurrezione di Cristo per la Cattedrale, assemblata flagrantemente con materiali della bottega raffaellesca, dalla pala di Giulio già nella cappella Massimi in Trinità dei Monti (oggi al Museo del Prado) alla Cacciata di Eliodoro, o relativi disegni, ad alcuni studi di Raffaello per la Resurrezione Chigi alla pala di Genga con lo stesso soggetto30. Solo dopo la fase dell’intensa amicizia con Rosso in fuga da Roma (e nel 1530 di passaggio da Pesaro), dopo l’esecuzione di alcune opere per Città di Castello, e dopo la collaborazione con Genga all’Imperiale, Raffaellino poté raggiungere Giulio a Mantova, non prima del 1534, per poi affiancare lungamente Vasari a partire dagli apparati fiorentini del 1536 per le nozze tra Alessandro de’ Medici e Margherita d’Austria31. Non deve essere stato quindi Raffaellino ma piuttosto Camillo Capelli a fare filtrare a Pesaro alcuni aggiornamenti sugli schemi decorativi sperimentati a Mantova, per esempio, salvo inganni dettati dalle ridipinture, le pareti della cosiddetta Sala degli Amorini sono scandite da aperture illusive sul paesaggio (fig. 5), introdotte all’occhio da baldacchini vegetali e pergolati prospettici, una soluzione che non pare spiegarsi con modelli romani e che invece trova riscontri stretti negli sfondati paesistici della decorazione del Giardino segreto di Federico Gonzaga in palazzo Te, già avviata nel 1531, della quale alcune parti perdute sono note attraverso fogli del cosiddetto taccuino di Maarten van Heemskerck conservato a Berlino (figg. 4, 6); così come qualche affinità corre tra i decori delle pareti della reggia gonzaghesca di Marmirolo e quelli della Sala dei Semibusti (fig. 7)32.

A implementare il canone vasariano dei nomi dei pittori attivi all’Imperiale è poi la notizia fornita da Francesco Scannelli (1657) di un coinvolgimento del Pordenone, per lo più elusa o sbrigativamente liquidata ma che merita invece qualche attenzione alla luce dell’attendibilità dello scrittore forlivese; questa fonte, peraltro non irrilevante per Genga in generale, registrava infatti l’esistenza di «diverse historie» eseguite nella villa dal Pordenone e al suo tempo ormai pressoché «annichilate», e questa informazione si intreccia effettivamente con alcuni altri elementi33. Innanzitutto, in una nota memoria di suo pugno scritta nel maggio 1530 Genga si affidava per l’acquisto di colori e pennelli a Venezia a due colleghi di sua fiducia, Pordenone e Savoldo, quest’ultimo certamente incontrato quando il pittore bresciano era andato a Pesaro, nel 1524, a stipulare di persona, alla presenza di Serlio come testimone, il contratto per la grande ancona della chiesa di San Domenico, tutta protesa sul nuovo confronto con la lezione luministica di Lotto34. Con Pordenone, è possibile che i contatti fossero passati attraverso Menzocchi, che nel 1530, quando in primavera fu chiamato a Pesaro a collaborare con Girolamo, era vincolato da impegni a Venezia35. Il pittore friulano era allora alle battute iniziali del lungo lavoro per Santa Maria di Campagna a Piacenza, dal quale nel marzo 1532 chiedeva di allontanarsi per alcuni mesi, verosimilmente per prendere parte al cantiere di villa Doria sotto il coordinamento di Perino, un’esperienza tutto sommato compatibile con una sua partecipazione ai lavori dell’Imperiale, e con quella circolazione di artisti e maestranze tra corti e cantieri collegati tra loro per cui Girolamo da Treviso da palazzo Te si spostò alla villa di Andrea Doria, come poi con ogni probabilità da Mantova Camillo Capelli transitò all’Imperiale, e Raffaellino del Colle fece il percorso inverso, da Pesaro alla città gonzaghesca36. Ed è ancora una fonte altra rispetto a Vasari a fornire notizie tali da comprovare il ruolo di crocevia svolto allora da Pesaro e la posizione di Genga sulla scena artistica italiana di quel momento. Solo dal carteggio di Michelangelo emergono infatti il passaggio lì di Sebastiano del Piombo sulla strada del rientro da Venezia a Roma alla fine di febbraio del 1529, e l’incontro suo con Genga, che Sebastiano definisce «pittore» e «homo da bene», molto «affectionato» a Michelangelo37; e ancora si apprende di qui la disponibilità di Genga ad adoperarsi in favore del Buonarroti per comporre le contese con il duca di Urbino relative al travagliato progetto della tomba di Giulio II, disponibilità alla quale Sebastiano ricorreva ancora nell’estate del 153138.

Tornando invece al filo della biografia vasariana, nuove sono nella Giuntina le informazioni sui modelli fittili preparati da Girolamo per gli ornamenti a stucco delle sovrapporte delle stanze dell’Imperiale, e in generale sulla sua produzione in altri ambiti delle arti decorative, dalle oreficerie alle maioliche alle mascherate. E pure viene aggiornata la notizia sul monumento sepolcrale di Francesco Maria della Rovere progettato da Girolamo e che a quel punto Vasari registrava ultimato dall’Ammannati e collocato a Urbino nella chiesa di Santa Chiara (oggi ne restano solo la lapide e qualche frammento)39. E nuove sono, infine, le indicazioni sull’ultimo tratto di Genga, con i cenni ai numerosi progetti architettonici per Guidubaldo II, alla spedizione mantovana del 1548 su richiesta del cardinal Ercole Gonzaga per occuparsi, dopo la morte di Giulio, del palazzo vescovile e della facciata del Duomo della città, e ancora nuovo è il riferimento all’estrema prova dell’artista nel disegno, ovvero quella composizione «di matita» dedicata alla Conversione di Saulo, «con figure e cavalli ben grandi e con bellissime attitudini» eseguita poco prima di morire e che Vasari vide presso gli eredi di Girolamo, cioè presso Bartolomeo e i suoi parenti, cui è riservato quel che resta di questa biografia40.

Nella furia di chiudere il libro per la stampa, l’incisione con il ritratto dell’artista che Vasari si era procurato finì per essere accompagnata da una didascalia sbagliata, «Christofono scultore», che venne rettificata già nella Tavola degli errori della Giuntina nella dicitura «Girolamo Genga pittore»; tale qualifica venne ulteriormente aggiustata in quella che siamo abituati a vedere, «Girolamo Genga pit(tore)/ architetto», nel raro volume edito da Vasari pure nel 1568 dov’era autonomamente presentata la serie dei ritratti degli artisti compresi nelle Vite giuntine, e da quelle derivata, appunto con alcune modifiche nelle relative didascalie41. Proprio sulla base della correzione apportata lì da Vasari, la didascalia erronea che accompagnava il ritratto di Genga venne emendata con l’applicazione di un cartellino che risulta sistematicamente presente negli esemplari della Giuntina e che quindi dovette essere inserito dal tipografo stesso42. A saldare l’eredità di Genga al prosieguo della storia della pittura moderna sarà poi, con stringente coerenza di lettura, Giovan Pietro Bellori, che si assumerà il compito di ricordare come proprio in quella lontana stagione della cultura urbinate, tra Girolamo e Bartolomeo Genga, Menzocchi e Battista Franco, si fosse giocata la prima formazione di Federico Barocci .

 

 

 


Note


 

  • 1 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, Firenze 1550-1568 (ed. cons. a cura di R. Bettarini e P. Barocchi, vol. 4, Firenze 1976, pp. 421-422).
  • 2 Ibidem; C. Davis, The tomb of Mario Nari for the SS. Annunziata in Florence. The Sculptor Bartolomeo Ammannati until 1544, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», XXI, 1977, 1, pp. 69-94, in part. p. 89 nota 13.
  • 3 Vasari, Le vite… cit. (nota 1), vol. 4, p. 421; per la cronologia della Resurrezione: R. Bartalini, Sulla camera di Alessandro e Rossane alla Farnesina e sui soggiorni romani del Sodoma (con una nota su Girolamo Genga a Roma e le sue relazioni con i Chigi), in «Prospettiva», 2014, 153-154, pp. 39-73, in part. p. 56. Si veda inoltre il suo contributo in questo volume.
  • 4 Vasari, Le vite… cit. (nota 1), vol. 4, pp. 320 e 267; G. Mancini, Considerazioni sulla pittura, a cura di A. Marucchi, L. Salerno, Roma 1956, vol. 1, p. 188. Su questo dipinto perduto di Peruzzi: C. L. Frommel, Baldassarre Peruzzi als Maler und Zeichner, Vienna-Monaco 1967-1968, p. 104, n. 59. La questione è ripercorsa da G.M. Fachechi, Timoteo Viti in S. Caterina da Siena a via Giulia e l’opera che non c’è, in Timoteo Viti, atti del convegno a cura di B. Cleri (Urbino 2007), Urbino 2008, pp. 335-345.
  • 5 Vasari, Le vite… cit. (nota 1), vol. 4, pp. 421-422. Sulla registrazione vasariana del ciclo urbinate: A. Varick Lauder, Musée du Louvre. Départment des arts graphiques. Inventaire général des dessins italiens, VIII, Battista Franco, Parigi 2009, pp. 26-29.
  • 6 P. Aretino, Lettere. Libro secondo, Venezia 1542, (ed. cons. a cura di P. Procaccioli, Roma 1998, p. 20, n. 5); per la dedica al duca de Lo Ipocrito: P. Aretino, Id., Teatro, vol. 2 (ed. cons. a cura di G. Rabitti, C. Boccia, E. Garavelli, Roma 2010, p. 173).
  • 7 Le fonti prevasariane sulla fama di Genga erano indicate già da A. Petrioli Tofani, Per Girolamo Genga, in «Paragone», 229, 1969, pp. 18-36: p. 32 nota 2.
  • 8 P. Aretino, Lettere. Libro terzo [Venezia 1546], a cura di P. Procaccioli, Roma 1999, p. 445 n. 577.
  • 9 D. Lamberini, Il Sanmarino. Giovan Battista Belluzzi architetto militare e trattatista del Cinquecento, vol 2, Gli scritti, Firenze 2007, p. 172.
  • 10 Vasari, Le vite…cit. (nota 1), vol. 5, Firenze 1984, pp. 350-351. Fece in tempo a trascrivere l’iscrizione L. Pungileoni, Elogio storico di Timoteo Viti da Urbino, Urbino 1835, p. 81.
  • 11 Vasari, Le vite…cit. (nota 1), vol. 5, p. 347; la citazione è da Petrioli Tofani, Per Girolamo Genga…cit. (nota 7), p. 21. Su questa pagina vasariana: T. Henry, The life and art of Luca Signorelli, New Haven-Londra 2012, pp. 169, 200, 250.
  • 12 Vasari, Le vite cit., V, p. 347.
  • 13 L.B. Kanter, T.Henry, Luca Signorelli. The Complete Paintings, Londra 2001, p. 58; Henry, The Life and Art…cit. (nota 11), pp. 198-199.
  • 14 Ibidem; R. Bartalini, Le occasioni del Sodoma. Dalla Milano di Leonardo alla Roma di Raffaello, Roma 1996, pp. 115-116. Su questa congiuntura del percorso di Genga: M. Fagiani, Gli ultimi anni di Pandolfo Petrucci e l’arte a Siena a cavallo tra primo e secondo decennio, in Il buon secolo della pittura senese. Dalla maniera moderna al lume caravaggesco, catalogo della mostra a cura di A. Angelini et alii (Montepulciano-San Quirico d’Orcia-Pienza 2017), Pisa 2017, pp. 66-73.
  • 15 Vasari, Le vite… cit. (nota 1), vol. 5, pp. 347-348; vol. 4, p. 268. Sulla cappella Arrivabene: S. Ferino, Timoteo Vitis Zeichnungen zum verlorenen Martinzyclus in der Kapelle des Bischofs Arrivabene im Dom von Urbino, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz»,XXIII, 1979, pp. 127-144; la documentazione su Viti e Genga in questi anni è raccolta da A. Falcioni, Documenti urbinati, in Timoteo Viti…cit. (nota 4), pp. 5-72, in part. pp. 12-13.
  • 16 Vasari, Le vite… cit. (nota 1), vol. 5, p. 348.
  • 17 Tale assenza di riscontri era rilevata da A. Pinelli, O. Rossi, Genga architetto, aspetti della cultura urbinate del primo ‘500, Roma 1971, pp. 108, 207.
  • 18 Vasari, Le vite… cit. (nota 1), vol. 5, p. 348.
  • 19 Ibidem.
  • 20 Ibidem; cfr S. Serlio, Il secondo libro di perspettiva, Parigi 1545, f. 70.
  • 21 Il contratto del 12 settembre 1513 sottoscritto da Genga, che si definisce «pictore in Fiorenza», è stato pubblicato da C. Grigioni, Per la tavola di Girolamo Genga, già nella chiesa di S. Agostino in Cesena, in «Rassegna bibliografica dell’arte italiana», XII, 1909, pp. 4-6, pp. 56-61. Le imprecisioni di Vasari nel raccontare gli spostamenti del pittore, e le relative conseguenze nella storiografia, sono state rilevate da S. Eiche, Girolamo Genga the architect: an inquiry into his background, in «Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz», XXXV, 1991, 2-3, pp. 317-324.
  • 22 Vasari, Le vite… cit. (nota 1), vol. 5, pp. 348 e 351.
  • 23 Per i documenti che attestano l’impegno di Genga nel 1518 con gli eredi del defunto per intervenire nella cappella: C. Grigioni, Documenti inediti intorno alla famiglia, alla vita e alle opere di Francesco Menzocchi, in «La Romagna», XVI, 1927, pp. 313-333; sul monumento sepolcrale del Lombardini: F. de la Moureyre-Gavoty, Inventaire des collections publiques françaises, 19, Institut de France, Paris – Musée Jacquemart-André, Sculpture italienne, Parigi 1975, s.n., fig. 150 e scheda relativa. Prescindendo dall’esistenza della lapide nella cappella, una differente spiegazione per la data 1512 riferita da Vasari è avanzata da A. Colombi Ferretti, Percorso di Francesco Menzocchi, in Francesco Menzocchi. Forlì 1502-1574, catalogo della mostra a cura di A. Colombi Ferretti e L. Prati (Forlì 2003-2004), Ferrara 2003, pp. 25-69, in part. p. 27; e si veda il contributo della studiosa in questo volume.
  • 24 Vasari, Le vite… cit. (nota 1), vol.5, pp. 348 e 351.
  • 25 Vasari, Le vite… cit. (nota 1), vol, 5, p. 348. Sulla cronologia dei lavori: F.P. Fiore, Urbino, Pesaro e Girolamo Genga, in Storia dell’architettura italiana, il primo Cinquecento, a cura di A. Bruschi, Milano 2002, pp. 446-455, in part. p. 449. Per tale aspetto encomiastico del programma iconografico: A. Pinelli, La bellezza impura. Arte e politica nell’Italia del Rinascimento, Roma-Bari 2004, pp. 3-72.
  • 26 Vasari, Le vite… cit. (nota 1), vol. 5, pp. 348-349.
  • 27 Ivi, vol. 4, p. 421. Un riepilogo della questione, con bibliografia precedente, è da ultimo in A. Marchesi, Per una cronologia dossesca: regesto documentario, in Dosso Dossi. Rinascimenti eccentrici al Castello del Buonconsiglio, catalogo della mostra a cura di V. Farinella, con L. Camerlengo e F. de Gramatica (Trento, 2014), Cinisello Balsamo 2014, pp. 343-361, in part. p. 352. Nel mio intervento Sulla Vita torrentiniana dei Dossi, in Giorgio Vasari e il cantiere delle Vite del 1550, atti del convegno internazionale a cura di B. Agosti, S. Ginzburg e A. Nova (Firenze, 2012), Venezia 2013, pp.185-194, in part. p. 186, trovo uno sfondone (Genga a Trento!) a me stessa incomprensibile, che colgo qui l’occasione di rettificare. Per tempi e durata del cantiere decorativo dell’Imperiale si vedano in questo volume i contributi di Daniele Benati e Alessandra Pattanaro.
  • 28 Vasari, Le vite… cit. (nota 1), vol 4, p. 325; vol. 6, Firenze 1987, p. 232.
  • 29 Il testamento di Giulio si legge in D. Ferrari, Giulio Romano. Repertorio di fonti documentarie, Roma 1992, vol. 1, pp. 58-60.
  • 30 Nella Vita di Cristofano Gherardi Vasari (Le vite… cit. [nota 1], vol. 5, p. 285) evoca la presenza di Raffaellino accanto a Giulio nei lavori di palazzo Te, collocandola implicitamente nel corso degli anni Venti. Per le nuove evidenze documentarie: D. Franklin, Raffaellino del Colle: painting and patronage in Sansepolcro during the first half of the sixteenth-century, in «Studi di Storia dell’Arte», I, 1990, pp. 145-159, in part. pp. 145-148; Id., Raffaellino del Colle and Giulio Romano, in Late Raphael, proceedings of the International Symposium (Madrid, 2012), a cura di M. Falomir, Madrid 2013, pp. 100-105.
  • 31 Per la data più plausibile del soggiorno mantovano di Raffaellino: M. Droghini, Raffaellino del Colle, Sant’Angelo in Vado 2001, p. 27. Secondo A. Nesi, Il Doceno all’Imperiale e altri appunti sulla bottega di Raffaellino del Colle, in «Pesaro, città e contà. Rivista della Società pesarese di studi storici», 2006, 23, pp. 16-26, il Doceno, che alla fine del 1533 è documentato a Borgo San Sepolcro insieme a Raffaellino, potrebbe essere stato al suo fianco all’Imperiale.
  • 32 Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett, inv. 79 D 2a, ff. 10r e 63r. Sull’allestimento della villa di Marmirolo e la documentazione sulle fabbriche del Giardino segreto e la loro decorazione: A. Belluzzi, in Giulio Romano, catalogo della mostra a cura di E.H. Gombrich et alii (Mantova, 1989), Milano 1989, pp. 520-521; S. L’Occaso, Giulio Romano e dintorni. Soluzioni decorative e loro diffusione, Mantova 2015, pp. 47, 78. Sulle affinità architettoniche tra palazzo Te e l’Imperiale: P. Davies, D. Hemsoll, Quattro progetti architettonici legati a Giulio Romano, in Giulio Romano e l’arte del Cinquecento, Modena 2014, pp. 185-207, in part. pp. 193-194. Per la presenza di Camillo Capelli tra le maestranze attive nel Palazzo Ducale per Isabella d’Este in Corte Vecchia e alcuni suoi «avanzi di lavoro a fresco» ancora visibili nel Settecento: P. Coddè, Memorie biografiche dei pittori scultori architetti ed incisori mantovani, Mantova 1838, p. 39; lo stato degli studi sul pittore resta carentissimo. Sulle vicende conservative degli affreschi dell’Imperiale: S. Eiche, Prologue to the Villa Imperiale Frescoes, in «Notizie da Palazzo Albani», XX, 1991, 1-2, pp. 99-119.
  • 33 F. Scannelli, Il Microcosmo della Pittura, Cesena 1657 (ed. cons. a cura di E. Monaca, con un’introduzione di C. Occhipinti, Roma 2015, p. 311).
  • 34 G. Gronau, Documenti artistici urbinati, Firenze 1936 (ed. con un saggio di G. Perini Folesani, Urbino 2011, p. 123); per la lettura stilistica del dipinto: A. Ballarin, Profilo di Savoldo (1990), in Id., La “Salomè” del Romanino e altri studî sulla pittura bresciana del Cinquecento, a cura di B. M. Savy, Cittadella 2006, vol. 1, pp. 197-216: in part. pp. 198-199.
  • 35 Gronau, Documenti artistici …cit. (nota 34), p. 123; Colombi Ferretti, Percorso… cit. (nota 23) p. 33.
  • 36 Per gli spostamenti di Girolamo da Treviso: V. Mancini, Un insospettato collaboratore di Giulio Romano a Palazzo del Te: Gerolamo da Treviso, in «Paragone», XXXVIII, 1987, 453, pp. 3-21; P. Ervas, Girolamo da Treviso, Saonara 2014, p. 41. Per il soggiorno genovese del Pordenone: C.E. Cohen, The art of Giovanni Antonio da Pordenone between dialect and language, Cambridge (Mass.) 1996, pp. 329, 663-666 n. 62.
  • 37 L’episodio è raccontato da Sebastiano nella lettera del 29 aprile 1531: Il carteggio di Michelangelo, edizione postuma di G. Poggi, a cura di P. Barocchi e R. Ristori, vol. 3, Firenze 1973, pp. 303-306, in part. p. 305.
  • 38 Risulta dalla lettera di Sebastiano del 16 giugno 1531: ivi, pp. 308-310 in part. p. 310.
  • 39 Cfr Vasari, Le vite… cit. (nota 1), vol. 4, p. 421 e vol. 5, p. 350. Sulle vicende del monumento, la cui iscrizione era stata richiesta a Pietro Bembo: B. Agosti, Il Bembo del Giovio, in Pietro Bembo e le arti, a cura di G. Beltramini, H. Burns, D. Gasparotto, Venezia 2013, pp. 193-205, in part. p. 201, con bibliografia precedente.
  • 40 Vasari, Le vite… cit. (nota 1), vol. 5, p. 350.
  • 41 L’intera questione, con la precisazione relativa al caso del Genga, è stata inoppugnabilmente acclarata da Ch. Davis, in Giorgio Vasari. Principi, letterati e artisti nelle carte di Giorgio Vasari, catalogo della mostra a cura di L. Corti e M. Daly Davis (Arezzo, 1981), Firenze 1981, pp. 257-259, n. 11.
  • 42 Ibidem.