fondazione zeri

di Alessandro Morandotti

Roberto Longhi e la pittura lombarda del Seicento e del Settecento: il caso di Giacomo Ceruti (1698-1767)

Per far riemergere il ruolo centrale di Roberto Longhi nella riscoperta novecentesca di Giacomo Ceruti è necessario ripercorrere il ruolo dello studioso nella ricostruzione critica di molti fatti salienti della storia dell’arte lombarda, con particolare attenzione al suo contributo sul Seicento e il Settecento. Abbiamo capito, anche attraverso altre relazioni lette in queste giornate di studi, che non bisogna mai prestare cieca fede nei confronti degli studiosi del passato, anche se si tratta di grandi maestri o anche solo dei nostri cari maestri; con vigile spirito critico - e senza annoverarmi tra i nostalgici fermi al presunto canone di Longhi (che è piuttosto quello più ristretto di Testori), con i pittori della peste manzoniana e Ceruti unici ‘campioni’ del Sei e Settecento lombardo - posso dire però che, sui temi qui indagati, Longhi ha avviato un percorso dal quale è difficile deviare.

Naturalmente conta molto anche capire che Longhi su questi temi giocava in casa; come è ben noto, infatti, lo studioso è nato ad Alba e si è formato a Torino, dove si è laureato nel 1911 su

Caravaggio[1], con una tesi che affrontava tra l’altro gli anni della formazione lombarda del pittore, un tema che lo ha indotto a riprendere in mano l’intera genealogia della storia dell’arte in Lombardia. Peraltro, nei suoi anni giovanili, Longhi ha attraversato in lungo e in largo i confini tra Piemonte, Lombardia e Liguria[2], maturando una conoscenza straordinaria dell’arte di quei territori anche se i suoi studi, percorsi anche nelle minime note, non restituiscono pienamente la sua capillare intelligenza delle maniere degli artisti di quei luoghi. Si vorrebbe molto avere a disposizione i suoi taccuini giovanili, con molti appunti di viaggio, che giacciono sotto la polvere nell’archivio della Fondazione Longhi, perché lì avremmo forse notizia di molte scoperte e di molte idee dello studioso ai suoi esordi.

Tutti noi ricordiamo a memoria la dichiarazione programmatica che Roberto Longhi affida alle pagine del primo numero della rivista «Paragone», quasi a definire lo statuto del nostro mestiere: «L’opera d’arte non sta mai da sola, è sempre un rapporto. Per cominciare: almeno un rapporto con un’altra opera d’arte […] in [un] dato momento e luogo»[3]. Per questo, lo studioso, fin dagli anni giovanili, cerca di mettere a fuoco un catalogo credibile degli artisti che gli interessano e allo stesso tempo prova a montare genealogie attendibili delle scuole artistiche poco studiate fino ai suoi anni e di cui lui rintraccia la vicenda attraverso l’analisi dello stile: e la scuola lombarda è una di queste. Nei suoi studi su Caravaggio, anche quelli più giovanili, lo studioso ha la consapevolezza che all’arrivo a Roma il pittore ha già messo a punto la sua lingua artistica. Per questo cerca di capire di cosa si è ‘nutrito’ l’artista fino ai suoi vent’anni. I precedenti di Caravaggio, nella tesi del 1911, sono i «preparatori», e oggi sono tutti nomi molto noti alla storia dell’arte, non solo nell’ottica della formazione di Caravaggio: Moretto, Moroni, Lotto, Savoldo[4]; una rosa di nomi presto allargata a comprendere, grazie alla militante passione di studio per quel suo ‘primo amore’ che lo accompagnerà per tutta la vita, altri maestri con i quali Caravaggio ebbe a confrontarsi più direttamente negli anni dell’apprendistato, dai Campi a Simone Peterzano a Figino[5].

Longhi, poi, ha ben presente il contesto milanese e lombardo che Caravaggio lascia quando si sposta a Roma e per questo ha perfettamente sotto gli occhi la produzione degli artisti lombardi attivi a cavallo tra Cinquecento e Seicento, quegli artisti legati alle grandi imprese decorative volute dall’arcivescovo Federico Borromeo che dipingono, come grandi narratori di storie destinate ad accendere la devozione sugli altari delle chiese dell’arcidiocesi lombarda, tele (ma anche affreschi) meravigliosi, struggenti, talvolta macabri e drammatici (ma mai caravaggeschi!), talvolta molto dolci: da Morazzone a Cerano, da Moncalvo ai Procaccini. Longhi governa perfettamente anche questa vicenda della storia dell’arte lombarda pur non dedicando quasi mai studi specifici, articoli monografici o ricostruzioni d’insieme[6].

Eppure emergono sempre spie della sua estrema confidenza con questa come con qualsiasi altra vicenda della storia dell’arte lombarda, per ogni tratto cronologico, dal Medioevo al Settecento. Basterebbe pensare[7] alle numerose precisazioni attributive avanzate nella recensione del 1914 al catalogo della Pinacoteca del Castello Sforzesco edito in quell’anno, dove opere schedate in modo approssimativo vengono restituite a Morazzone, Moncalvo, Procaccini, Cairo (anche il Ritratto di letterato, inv. n. 158, fino ad allora considerato un autoritratto di Salvator Rosa), Nuvolone, mentre dipinti ritenuti lombardi per tradizione attributiva vengono spostati su altre scuole; e lo studioso spiega perché è necessario fare questo ordine nelle attribuzioni:

 

Per il Seicento soprattutto locale, pur così pieno di rigoglio e di vita, il caos delle conoscenze è ancora così pieno che non si può pretendere nulla in più delle attribuzioni tradizionali. Sicché soltanto per avviare o per stimolare allo studio di questi problemi proponiamo alcune correzioni[8].

 

La nostra idea di un artista, così come di una scuola, è strettamente legata alla bonifica del catalogo delle opere che gli appartengono: le precisazioni attributive non sono quindi mai esercizi esibizionistici fini a se stessi.

Ancora tra le righe di un’altra recensione, in questo caso alla fondamentale silloge di documenti sul cantiere del Sacro Monte di Varallo edita da Pietro Galloni nel 1914, Longhi chiarisce con un passo fulminante il ruolo di Gaudenzio Ferrari come padre nobile della scuola lombarda e piemontese fin dentro il Seicento, e certo non solo all’interno delle cappelle di Varallo[9].

Sempre nel genere letterario della recensione, molto praticato negli anni giovanili, Longhi interviene in maniera molto dura nel giudizio dedicato a una monografia su Daniele Crespi licenziata da un solerte ricercatore ‘locale’ come Giorgio Nicodemi nel 1915. Lo studioso fa ordine innanzitutto su vicende attributive, distinguendo tra copie e originali, tra autografi e opere da rifiutare, ma, soprattutto, mette in chiaro l’idea che bisogna studiare Daniele Crespi, così come ogni artista, nel suo contesto. Nicodemi, forse per accreditare questo artista allora poco noto, cita spesso a confronto Michelangelo (il cui spirito sarebbe rinato in Daniele per l’autore del libro), Longhi invece delinea un quadro della storia della pittura nella Milano in cui si forma Daniele, mettendo in campo anche le sue conoscenze della coeva letteratura artistica, che è già una sintesi da manuale[10].

A ricordare le indagini minute compiute da Longhi sul patrimonio artistico lombardo, anche per quei secoli sui quali non scrisse mai saggi specifici né in volume o in rivista né in cataloghi di mostre, torna utile evocare questo brano autobiografico del 1962 estratto dalla sua introduzione alla mostra di Morazzone svoltasi in quell’anno a Varese, un’esposizione che Longhi aveva molto voluto indicando agli organizzatori il nome di Mina Gregori come curatrice.

 

Tutti gli itinerari del Morazzone [e di tutti i pittori lombardi attivi a cavallo tra Cinque e Seicento] me li percorsi fin da ragazzo (su una bicicletta albese del Racca) da Novara a Varallo e ai tanti Sacri Monti dei laghi lombardi. Erano ancora fresche allora le fotografie varallesi del bravo Piazzetta; Samuel Butler, uno dei riscopritori di Gaudenzio, era morto da dieci anni soltanto; non erano invece ancora nati né Giovanni Testori né Mina Gregori, oggi gran fautori dell’arte lombarda[11].

 

In questo passo della sua introduzione al catalogo, che è un magnifico saggio breve sull’arte lombarda del primo Seicento, Longhi ci restituisce l’idea che, fin da quando aveva i calzoni corti, queste cose le aveva mandate a memoria e aveva arato un terreno entro il quale, pur con una spiccata intelligenza e autonomia, si erano inseriti i suoi allievi lombardi Giovanni Testori e Mina Gregori. Non una rivendicazione, ma insomma… Ormai vecchio, Longhi si doveva essere accorto che la sua grande generosità, tra segnalazioni e spunti interpretativi offerti ai suoi due seguaci nel corso del tempo, poteva forse fare dimenticare chi era stato il primo motore di molti fatti critici in quell’ambito di studi, di chi aveva avuto gli occhi per leggere come si doveva leggere un lungo tratto della storia dell’arte lombarda.

Sempre tra le righe di questa presentazione del 1962 emerge l’intelligenza visiva di Longhi anche in ambito grafico, dove pure egli non si esercitò mai con interventi sistematici[12]; lo studioso precisa allora che la serie di disegni conservati presso la Fabbrica del Duomo di Milano, connessi alla celebre serie di quadroni (1602 e 1610) destinati a narrare le vicende della vita e i miracoli di san Carlo Borromeo, non va considerata preparatoria, come allora si credeva, ma è piuttosto da vedere come una derivazione settecentesca dagli originali di Cerano e Procaccini; ed è proprio così, anche se nessuno si è ancora preoccupato di rintracciare il nome di quel disegnatore spiritoso che interpreta quei quadri così drammatici con un virtuosismo lezioso che denuncia un altro clima culturale e un altro ambito cronologico.

Proprio a ridosso delle perlustrazioni giovanili ora evocate, Longhi trova un’altra importante occasione di studio e di verifica, anche sui temi di questa lezione. Molte precisazioni attributive e molte idee critiche sul Seicento e il Settecento lombardo dello studioso nascono infatti in margine alla grande mostra del 1922 svoltasi nelle sale di Palazzo Pitti a Firenze (fig. 1), iniziativa che, come è ben noto, apre veramente la fase contemporanea degli studi sul Seicento e Settecento italiano, presentando al pubblico circa 1300 dipinti provenienti da tutte le parti d’Italia («tanto da sbigottire»[13]) grazie a una selezione guidata perlopiù dai direttori dei musei e dai funzionari di Soprintendenza delle principali città della penisola. Longhi partecipa ai lavori per una seconda edizione del catalogo resasi necessaria per i numerosi sfalli attributivi, ma in seguito egli prende le distanze dall’ipertrofico comitato organizzativo (con il protervo Ugo Ojetti tra i primi) che non sempre ne aveva seguito i consigli (o li aveva accettati tiepidamente) e per questo pubblicherà qualche anno dopo le sue note a margine al catalogo del 1922 dove ribadisce certe proprie idee attributive accolte e certe altre non accettate nonostante gli avvertimenti. Queste secche note organizzate alfabeticamente ci aiutano a comprendere la capacità di distinzione di Longhi tra un artista e un altro, tra una scuola e un’altra, e sarà bene evocarne alcune nel nostro ambito di indagine. Il San Sebastiano curato da Irene e da un angelo della collezione Achillito Chiesa di Milano, l’unica opera in mostra a documentare il talento di Tanzio da Varallo, vi giungeva grazie a una segnalazione di Longhi, al quale si doveva, fin dal 1916, la precisazione attributiva a favore del pittore lombardo, negli anni delle più fervide avventure critiche caravaggesche; fino a quella data il dipinto, in cui Tanzio si confronta in modo molto spettacolare e personale con Gentileschi e Baglione, circolava con il nome inverosimile di Rubens, forse in ragione del cromatismo così acceso[14].

Sempre in occasione della mostra del 1922, lo studioso riassegna a Francesco Cairo le due celebri Erodiadi (di Torino e di Vicenza)[15], opere che costituiranno la miccia di un famoso saggio di Giovanni Testori pubblicato sulle pagine delle prime annate di «Paragone». Su Cairo, come abbiamo già avuto modo di vedere a proposito della recensione del catalogo delle opere della Pinacoteca del Castello Sforzesco di Milano, Longhi aveva le idee abbastanza chiare in quel giro d’anni, anche per allontanare dal corpus delle sue opere esemplari spuri che gli venivano assegnati nelle antiche collezioni a documentare la sua fama non solo locale. Tra le righe di un articolo del 1913 dedicato a Caravaggio, Longhi assegna a Carlo Saraceni il Convito del ricco Epulone dei Musei Capitolini di Roma allora ritenuto, pur con qualche dubbio, di Francesco Cairo[16]; un dipinto che con un errore intelligente sarebbe potuto passare sotto il nome di Carlo Bononi o, pensando al paesaggio di sfondo, dell’illustre Guercino, ma del tutto estraneo alla cultura di Cairo o di qualsiasi altro artista lombardo del Seicento.

Forse il contributo più noto di Longhi sui pittori lombardi del primo Seicento, e più citato dagli studiosi che si occupano di arte lombarda di quell’epoca, è quello straordinario lungo paragrafo dove, grazie a una serie ricchissima di invenzioni letterarie e figure retoriche, Longhi ne definisce le scelte di stile come meglio non si potrebbe. L’innesco è costituito da un saggio del 1926 su Gioacchino Assereto, pittore genovese attento alla lezione dei lombardi, come molti altri artisti di quelle terre, e non solo del Seicento[17]. A commento del suo Martirio di san Bartolomeo dell’Accademia Ligustica, «ammirevole di violenza demoniaca come un Morazzone o un Cerano», «costipato come tutti i [quadri milanesi]»[18] Longhi declama:

 

Costoro [Procaccini, il Cerano, Morazzone] sono a loro volta i portatori del più spirituale manierismo che abbia avuto l’Italia in quei tempi, dopo il Rosso e il Parmigianino e il Primaticcio; sicché Bellange, Blocklandt, Spranger, Cornelio di Haarlem son forse legati a costoro da affinità profonde più che non lo siano i Carracci e il Caravaggio […]. Capricci spirituali a punta di penna o di pennello. Schermidori di sacrestia. Languidezze e livori. Fiori, muscoli e pestilenze. Fossette di grazie e ferite di crudeltà[19].

 

E si tratta solo di riadattare a ciascuno dei protagonisti della scuola lombarda del Seicento quelle fulminanti definizioni critiche che ne qualificano le scelte in modo per noi oggi evidentissimo: ma allora, capire che le stampe nordiche, se non i quadri, avevano segnato l’educazione di molti di quei pittori (Cerano tra i primi) e che Milano, paradossalmente, è stata una delle città meno caravaggesche d’Italia dopo avervi visto crescere Caravaggio… Quel breve testo ci suggerisce il valore fondamentale di alcuni termini di riferimento critico (qui fondamentalmente «manierismo») laddove, se utilizzati a proposito, permettano immediatamente di fare chiarezza traducendo quel che vediamo.

Tra le molte opere offerte alla vista da quella vera cornucopia che è stata la mostra del 1922, venne presentato anche un dipinto che era giunto per dono nel 1914 alla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia come opera tradizionalmente attribuita a Giacomo Ceruti (fig. 2); si trattava dell’unica opera chiamata a documentare l’attività dell’artista, allora pressoché sconosciuto agli studi di storia dell’arte[20] e fu certo una rivelazione perché la sua qualità non lasciava certo indifferenti.

Ceruti restituisce una scena di vita popolare in una corte rustica di una cascina, con toni estremamente disadorni; la giovane lavandaia che ci guarda negli occhi e ferma il suo lavoro di gomito sulla vasca della fontana, mentre un membro della famiglia porta i fazzoletti lavati a stendere in qualche angolo dell’aia, comunica immediata empatia. La regia con la quale è costruita la scena, lo sguardo solidale con il quale è restituita la vita di figure minori all’interno della società di antico regime, non ha molti raffronti nel panorama europeo del Settecento. Basterebbe pensare per contrasto al repertorio di fantesche provocanti messe in opera dai maestri francesi del Settecento, tra Lépicié e Greuze, dove scene d’interno di gusto neo-olandese ci presentano figure ammiccanti, lontane certo dall’austero mondo contadino descritto da Ceruti[21].

È intorno a quel dipinto di Ceruti esposto nel 1922 che prende avvio la ricostruzione di Longhi, anche grazie alla presenza in mostra di opere del pittore presentate sotto altri nomi.

Il primo abbozzo di catalogo per risarcire la figura di Giacomo Ceruti è confinato in una nota di un saggio di Longhi del 1927 dedicato a Gaspare Traversi, il grande pittore napoletano del Settecento. Al di là delle diverse declinazioni regionali, in quel momento a Longhi interessava ripercorrere la storia della pittura della realtà popolare nell’Italia del Seicento e Settecento, distinguendo tra i pittori di genere attenti a descrivere in modo svagato i ceti umili e i maestri che li avevano descritti con sguardo empatico se non solidale:

 

Il preteso naturalismo di tutti costoro [dei numerosi pittori italiani attenti a descrivere la vita delle classi meno agiate, tra i quali Longhi menziona Monsù Bernardo, Todeschini, Giuseppe Maria Crespi e Piazzetta], se non forse quello stupendamente paesano ed antico del grande Ceruti, scade al confronto del nostro singolarissimo Traversi[22].

 

Forse, a ben vedere, pensando alla Cuoca della Galleria Nazionale di Bologna, Giuseppe Maria Crespi poteva anche uscire dalla lista di ‘proscrizione’ stilata da Longhi, ma quel che conta per noi è vedere molte carte utili a definire la personalità di Ceruti andare a posto in quel contesto.

Anche se non è certo uno dei quadri più significativi di Ceruti, la Ragazza con il cane del Metropolitan Museum di New York (fig. 3) ci permette di cogliere la distanza del pittore lombardo da un generista tout court come Giacomo Francesco Cipper detto il Todeschini, un pittore radicato nella Lombardia di Ceruti e prima di lui attivo su questi stessi temi. Il quadro era stato esposto alla mostra del 1922, quando si trovava nella collezione di Achillito Chiesa, proprio con l’assegnazione errata a Todeschini[23]. Se confrontiamo il dipinto riassegnato a Ceruti da Longhi con un’opera dal soggetto analogo del Cipper, ci rendiamo subito conto come il tono caricato, grottesco, derisorio di Todeschini lascia spazio nel dipinto già Chiesa oggi a New York (quasi un ‘doppio ritratto’) a un gusto per il vero, a un’empatia, ben lontani dal divertito sguardo burlesco di Todeschini.

Al contempo, sempre in margine al suo saggio su Traversi, Longhi attribuisce a Giacomo Ceruti un dipinto molto celebre dell’Accademia Carrara di Bergamo, che era stato esposto alla mostra del ritratto italiano del 1911 (sempre nella cornice di Palazzo Pitti) come opera di Pietro Longhi[24] (fig. 4). Nel momento in cui Roberto Longhi assegna questo dipinto a Ceruti, egli ha chiaro che il tono solamente descrittivo della società settecentesca così tipico della pittura di Pietro Longhi è lontano dalla sensibilità emotiva dell’autore della ragazza con il ventaglio, sincera e autentica come tutta l’umanità nobilitata dal pittore lombardo. Persone, queste di Ceruti, e non tipi umani come quelli che sfilano nelle tele longhiane. Anche dal punto di vista tecnico, il quadro della Carrara, scabro come un ritratto del Fayyum, è lontano anni luce dai toni smaltati delle opere di Pietro Longhi. Forse Roberto Longhi, anche se non si esprime esplicitamente, aveva già chiaro che esisteva una ragione di stile lombarda per spostare questo dipinto in un’area geografica distinta rispetto a quella veneziana.

La rivalutazione del talento di Ceruti ha una brusca accelerazione nel 1931, nel momento in cui torna alla luce un ciclo di almeno tredici tele (figg. 5-8) conservate in una villa della campagna bresciana, a Padernello[25], tutte dedicate a passare in rassegna scene di vita quotidiana in cui sono protagonisti popolani grandi al vero che spillano vino, giocano a carte, fabbricano scarpe, intrecciano vimini, cuciono… Grazie a una segnalazione di Fausto Lechi, genius loci, Giuseppe De Logu si imbatte in questa serie presto famosissima e, come può avvenire quando ci si trova di fronte per la prima volta ad opere inedite di grande qualità, trova il modo di tradurre con le parole adeguate quello che vede, con una capacità ecfrastica straordinaria[26]. Sono fatti su cui non ci dilungheremo in questo contesto, giacché i meriti di De Logu nella messa a punto della lingua artistica di Ceruti sono già stati ricordati in altri contesti, ma non possiamo dimenticare almeno di ricordare come a De Logu sembrasse che Ceruti, dopo i Le Nain, fosse stato il ‘cronista’, anzi l’interprete, più sensibile della vita dei ceti umili nell’Europa del Sei e Settecento[27].

Con una singolare coincidenza di tempi, mentre nel 1935 la serie di Padernello veniva esposta per la prima volta al pubblico in una mostra svoltasi a Brescia con la regia non proprio occulta di Fausto Lechi, nel 1934 apriva i battenti all’Orangerie di Parigi una mostra, che Longhi recensisce nel 1935 con entusiasmo, i cui intenti sono chiari fin dal titolo (Les peintres de la réalité en France au XVIIe siècle, fig. 9). Il merito dell’esposizione parigina andava a due grandi studiosi allora attivi negli uffici del Musée du Louvre, Paul Jamot e Charles Sterling, ai quali era caro riportare alla luce quei pittori francesi del Seicento che all’«intellectualité» avevano preferito la «passion du vrai», come scrisse Paul Jamot nella prefazione del catalogo. Georges de La Tour e i Le Nain sono i protagonisti della mostra del 1934, iniziativa sulla quale Longhi non cesserà mai di esercitarsi, apprezzandola, nonostante il dissenso con i curatori circa il ruolo di Caravaggio, per lui antefatto ineludibile di quelle ricerche artistiche sulla realtà anche più umile; per Jamot il grande lombardo era stato unicamente uno «choc exterieur», per Longhi invece,

 

soltanto dopo che il Caravaggio aveva capovolto in umano il modo di interpretare gli argomenti sacri ci si poteva dar coraggio di rappresentare, non come divagazione pittoresca (Bassano) e come ‘genere’ (fiamminghi e olandesi), ma con piena dedizione all’argomento, una «Famiglia di contadini»[28].

 

E il pensiero di Longhi era certo dedicato alla Famiglia di contadini di Louis o Antoine Le Nain, al Louvre dal 1915, «peint simplement avec une profonde sympathie humaine», come si legge nella scheda relativa al quadro nel catalogo del 1934 (fig. 10).

Questi fatti ora evocati - l’articolo di De Logu, la mostra del 1934, e, in virtù della prima presentazione pubblica del ciclo di Padernello di Ceruti, quella del 1935 - stanno a monte di una mostra che Longhi organizza nel 1953 a Milano, la vera consacrazione critica di Ceruti (fig. 11). I pittori della realtà in Lombardia è un omaggio dichiarato, «almeno nella formula dell’intitolazione» (che vuole dire molto) all’iniziativa del 1934. Al contempo, certe espressioni critiche utilizzate da Jamot e Sterling trovano un’attualizzazione nelle pagine del saggio introduttivo di Longhi; e così «l’art simple et franc», e, in una variante, «l’art simple et grave» dei fratelli Le Nain, secondo quanto recita il catalogo del 1934, trovano corrispondenze nella «semplicità accostante» e nella «penetrante attenzione» di molti protagonisti della mostra lombarda. Longhi, inoltre, rimarca la qualità rivelatrice della descrizione verbale delle opere di Ceruti fatta da De Logu e ne fa rivivere, pur usando parole diverse, l’efficacia: il pittore «dalla tenuta scabra, dimessa, color di polvere e di stracci» celebrato da Longhi è, prima ancora, il pittore che stende «il colore […] col pedale di smorzo […], senza riprese, senza velature ed orpelli […] così magro ed arido da sembrare tempera su tela» a seguire le parole di De Logu. E tutto questo nel secolo di Tiepolo e di Watteau[29].

Lo scatto critico di Longhi non è tanto, o non è solo, nell’originalità dell’ecfrasi, quanto piuttosto nella sua capacità di restituire un contesto credibile alle opere di Ceruti grazie al quale il pittore si inserisce all’interno di una tradizione figurativa, di una vera e propria genealogia attendibile tutta entro l’arte lombarda: dal Moroni al Ceruti come recita il titolo della sua introduzione al catalogo della mostra del 1953. Lo studioso non si allontana di molto da quanto lui stesso aveva già indicato

a proposito delle scelte del giovane Caravaggio, allorchè ne ancorava la formazione entro la «plaga dove un gruppo di pittori lombardi, o naturalizzati, tenevano aperto da sempre il santuario dell’arte semplice»[30], con Lotto, Moretto, Savoldo e Moroni ad aprire la strada,

 

con la loro umanità più accostante, religiosità più umile, colorito più vero ed attento, ombre più descritte, e curiose fin degli effetti di notte o di lume artificiale, avevano tenuto in serbo una disposizione a meglio capire la natura degli uomini e delle cose[31].

 

In modo analogo, anche se secondo un’altra prospettiva, Moroni, Ceresa, Baschenis e Ceruti, avevano dimostrato, nei loro ritratti così come nelle scene di vita popolare o nei quadri di storia

 

una semplicità accostante, una penetrante attenzione, una certa calma fiducia di poter esprimere direttamente, senza mediazioni stilizzanti, la realtà che sta intorno[32].

 

Moroni si trova così ad essere il minimo comune denominatore delle due linee del naturalismo lombardo, una delle quali conduce a Caravaggio e l’altra a Ceruti. Non sono solo le definizioni critiche a rendere credibile questa idea di una ‘tradizione’, o di due ‘tradizioni’ che convivono e si passano il testimone nel corso del tempo, ma è soprattutto il montaggio dei confronti proposto nelle pagine dei testi che accompagnano gli studi di Longhi a parlarci chiaro.

Non c’è un ragazzino di Moroni che possa essere chiamato a confronto con uno dei celebri portaroli di Ceruti (figg. 13, 15), o con il meraviglioso bambino con il cestino di dolciumi dipinto da Evaristo Baschenis (fig. 14) - il primo omaggio consapevole di un pittore lombardo alla Canestra dell’Ambrosiana[33] -, ma basta tenere in mente gli sguardi comunicativi dei suoi ritratti, anche se di uomini più maturi, per trovarne un corrispettivo nei quadri di Ceruti destinati a ripercorrere in modo epico la vita delle classi meno agiate.

Longhi, ritornando a riflettere sulle sostanziali differenze tra pittura di genere e pittura della realtà come aveva già fatto nel saggio dedicato a Gaspare Traversi nel 1927, ci consegna una lapidaria definizione delle scelte stilistiche di Ceruti, con la quale è bene chiudere questo intervento:

 

il Ceruti [avvertiva] come, alla sincera ‘ripresa’ pittorica della vita feriale, non artefatta, dello strato più misero dell’umanità, non occorresse neppure il correttivo episodico del soggetto di genere, predestinato a stingere nel lepido, e nell’umoristico (e questo egli poteva rilevarlo dai tentativi del Keil, del Carneo, del Cifrondi, del Todeschini): e bastasse invece la semplice (e come edificante) ‘presentazione’: ‘Ritratti’, insomma, di uomini comuni e infelici, senza commento, ma grandi come il vero; grandi com’erano un tempo i quadri d’altare nelle chiese dell’antica religione; e dipinti colla stessa, antica fede (ma per nuovi argomenti)[34].

 

Rimane un corollario, più drammatico che divertente a ben vedere. Mi sono imbattuto in modo causale in una definizione dell’opera di Giacomo Ceruti, presente nella rete; vi si legge, quasi increduli: «Nella sua pittura troviamo un realismo edulcorato. Infatti il pittore dipinge i piedi dei poveri puliti in segno di rispetto per i ricchi che avrebbero appeso il quadro nel loro salotto». Questa caricatura della storia dell’arte ci deve far capire che è meglio faticare su testi apparentemente difficili dal punto di vista linguistico ma chiarificatori come quelli di Longhi piuttosto che imparare chi era Ceruti attraverso definizioni improvvisate e poco controllate all’origine come tutto quello che ci offre ‘generosamente’ la rete.

 


Note


  • [1] La biografia di Longhi, dagli anni della formazione alla maturità, si segue bene in S. Facchinetti, Longhi, Roberto, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 65, Roma 2005, pp. 668-676.
  • [2] Si veda più avanti il nostro testo, all’altezza della nota 11.
  • [3] R. Longhi, Proposte per una critica d’arte [1950], in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 13, Critica d’arte e buongoverno, 1938-1969, Firenze 1985, pp. 9-20: 17.
  • [4] Questa parte della tesi di Longhi (I preparatori del naturalismo), e solo questa, è stata resa nota in R. Longhi, Il palazzo non finito. Saggi inediti, 1910-1926, a cura di F. Frangi e C. Montagnani, Milano 1995, pp. 11-32.
  • [5] R. Longhi, Quesiti caravaggeschi: i precedenti [1929], in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 4, ‘Me Pinxit’ e quesiti caravaggeschi, Firenze 1968, pp. 122-138.
  • [6] Qualcosa di analogo avviene con la figura di Tanzio da Varallo, un pittore risarcito da Longhi fin dai suoi anni giovanili nella prospettiva dei propri studi sui pittori caravaggeschi, ma di cui lo studioso conosce bene la fisionomia anche negli anni del ritorno in Lombardia, dove partecipa all’ultima stagione della pittura ‘borromaica’. Per i brevi lampi longhiani nell’ottica della ricostruzione della fisionomia di Tanzio, F. Frangi, Itinerario di Tanzio da Varallo, in Percorsi caravaggeschi tra Roma e Piemonte, a cura di G. Romano, Torino 1999, pp. 113-160: 116-117.
  • [7] In forma ampliata, riprendo qui di seguito, fino all’altezza della nota 10, alcuni miei spunti condivisi con Francesco Frangi in un testo scritto a quattro mani: F. Frangi, A. Morandotti, Le Seicento lombardo hier et aujourd’hui, in La peinture en Lombardie au XVIIe siècle. La violence des passions et l’idéal de beauté, catalogo della mostra a cura di F. Frangi e A. Morandotti (Ajaccio, 2014), Cinisello Balsamo 2014, pp. 11-23: 11-13.
  • [8] R. Longhi, Le Pitture del Castello Sforzesco di Milano [1916], in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 1, Scritti giovanili, 1912-1922, Firenze 1956, pp. 318-321: 318-319.
  • [9] R. Longhi, recensione a P. Galloni, Sacro Monte di Varallo: origine e svolgimento delle opere d’arte, 1914 [1917], in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 1cit. (nota 8), pp. 372-373. Longhi indica quel volume come documentato punto di partenza per gli studi futuri sul Sacro Monte che, tra l’altro, dovranno stabilire «l’adattamento critico-creativo di certe produzioni del Seicento a forme anteriori gaudenziane» (ivi, p. 373).
  • [10] R. Longhi, recensione a G. Nicodemi, Daniele Crespi, 1915 [1917], in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 1 cit. (nota 8), pp. 353-357.
  • [11] R. Longhi, Piaceri e vantaggi di una mostra [1962], in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 12, Studi e ricerche sul Sei e Settecento, 1929-1970, Firenze 1991, pp. 69-76: 73.
  • [12] Nell’ottica di questo intervento, si potrà ricordare l’attribuzione di un disegno spettacolare degli Uffizi (Cattura di Cristo), ritenuto di Morazzone da Nicodemi e riassegnato correttamente a Matthias Stom da R. Longhi, Ultimi studi su Caravaggio e la sua cerchia [1943], in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 11/1, Studi caravaggeschi, 1943-1968, Firenze 1999, pp. 1-54: 52 nota 85.
  • [13] R. Longhi, Note in margine al catalogo della mostra sei-settecentesca del 1922, in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 1 cit. (nota 8), pp. 493-512: 493.
  • [14] Ivi, p. 511. La prima traccia scritta di questa restituzione è in un saggio a lungo inedito su Carlo Saraceni (del 1917) reso noto in R. Longhi, Il palazzo non finito cit. (nota 4), p. 124.
  • [15] Considerate rispettivamente opere di Morazzone e di Lorenzo Garbieri: R. Longhi, Note in margine cit. (nota 13), p. 506.
  • [16] R. Longhi, Due opere di Caravaggio [1913], in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 1 cit. (nota 8), pp. 23-27: 26 nota 1.
  • [17] Longhi lavorava da tempo sui rapporti tra Genova e Milano, a diverse altezze cronologiche. Dopo la morte dello studioso la rivista «Paragone» ha pubblicato, attingendo alle cartelle che Longhi stesso chiamava «progetti di lavoro», una serie di appunti semilavorati per una ricerca dedicata alla «Genova pittrice» (Progetti di lavoro di Roberto Longhi. «Genova pittrice», in « Paragone», XXX, 1979, 349, pp. 4-25). Anche in questo caso, come era avvenuto in occasione dell’Officina ferrarese (1934) e del Viatico per cinque secoli di pittura veneziana (1946), Longhi prendeva spunto da alcune occasioni espositive svoltesi a Genova (nel 1938, e poi nel 1946 e 1947, queste ultime a cura di Antonio Morassi) per ridefinire meglio la genealogia della scuola genovese dal Medioevo alla metà del Seicento. La lucida disamina di Longhi, molto importante per mettere a fuoco i rapporti tra le due scuole ad esordio del Seicento, «quando lo Strozzi e l’Ansaldo giovani diventano gli amici dei milanesi» (ivi, p. 17) non compare nella bibliografia generale di un catalogo che ha aggiornato la ricerca circa i rapporti tra le due scuole, specie sul fronte della committenza e del collezionismo (Procaccini. Cerano. Morazzone. Dipinti lombardi del primo Seicento dalle civiche collezioni genovesi, catalogo della mostra a cura di C. Di Fabio [Genova, 1992], Genova 1992). Compare invece nella rassegna bibliografica finale il saggio di Longhi del 1926 dedicato ad Assereto dove la formula «amici dei milanesi» per Ansaldo, Strozzi e anche Borzone è già adottata (R. Longhi, L’Assereto [1926], in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 2, Saggi e ricerche, 1926-1928, Firenze 1967, pp. 35-47: 36). La fortuna di questa definizione longhiana sembra trovare un adattamento locale nel titolo del saggio portante del catalogo della mostra genovese del 1992 qui evocata: M.C. Galassi, I Lombardi e i loro «amici» genovesi: pittori e collezionisti fra Genova e Milano, 1610-1630, in Procaccini. Cerano. Morazzone cit. sopra, pp. 11-20.
  • [18] R. Longhi, L’Assereto cit. (nota 17), p. 40.
  • [19] Ivi, p. 36.
  • [20] Per una sintetica cronaca della riscoperta di Ceruti nella prima metà del Novecento, mentore Longhi, si può ricorrere a M. Gregori, Giacomo Ceruti, Cinisello Balsamo 1982, pp. 18-19. Per un punto delle nostre conoscenze sul pittore si veda ora a F. Frangi, Dal genere alla realtà: a proposito degli anni giovanili di Giacomo Ceruti; A. Morandotti, L’ironia e la verità dell’osservazione: Ceruti tardo e le novità della pittura tra Venezia, la Francia e l’Inghilterra; P. Plebani, Giacomo Ceruti: una biografia, tutti in Giacomo Ceruti (1698-1767). Popolo e nobiltà alla vigilia dell’età dei Lumi, catalogo della mostra a cura di F. Frangi e A. Morandotti (Milano, 2013), Milano 2013, rispettivamente pp. 11-15; 17-21; 89-90.
  • [21] A. Morandotti, L’ironia e la verità cit. (nota 20), p. 17.
  • [22] R. Longhi, Di Gaspare Traversi [1927], in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 2 cit. (nota 17), pp. 189-219: 211.
  • [23] Ivi, p. 216 nota 62. Longhi specifica in altra sede che l’assegnazione a Ceruti gli era chiara sin dalla mostra del 1922 (R. Longhi, Note in margine cit. [nota 13], p. 511).
  • [24] R. Longhi, Di Gaspare Traversi cit. (nota 22), p. 216 nota 62.
  • [25] Una ricognizione puntuale della discussa consistenza originaria del ciclo, a valle della riscoperta del 1931, è in F. Frangi, Giacomo Ceruti a Brescia e il ‘ciclo di Padernello’, in Da Raffello a Ceruti. Capolavori della pittura dalla Pinacoteca Tosio Martinengo, catalogo della mostra a cura di E. Lucchesi Ragni e R. Stradiotti (Brescia, 2005) Brescia-Conegliano 2004, pp. 49-59: 52-59.
  • [26] G. De Logu, Pittori minori liguri, piemontesi, lombardi del Seicento e del Settecento, Venezia 1931, pp. 195-210.
  • [27] Ivi, p. 205.
  • [28] R. Longhi, I pittori della realtà in Francia [1935], in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, , vol. 11/2, Studi caravaggeschi, 1935-1969, Firenze 2000, pp. 1-11: 9.
  • [29] Il testo, a partire dal paragrafo che segue la nota 27 e fino a qui, è una rielaborazione di alcuni spunti che mi competono condivisi con Francesco Frangi in un saggio scritto a quattro mani: F. Frangi, A. Morandotti, Il Maestro della tela jeans: un nuovo pittore della realtà, in Il Maestro della tela jeans. Un nuovo pittore della realtà nell’Europa della fine del XVII secolo, catalogo della mostra a cura di G. Gruber (Parigi, 2010), Parigi 2010, pp. 16-21: 16-17.
  • [30] R. Longhi, Caravaggio [1952], in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 11/1 cit. (nota 12), pp. 159-224: 160.
  • [31] Ivi, pp. 160-161.
  • [32] R. Longhi, Dal Moroni al Ceruti [1952], in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 12 cit. (nota 11), pp. 1-18: 2.
  • [33] A. Morandotti, Caravaggio e Milano. La canestra dell’Ambrosiana, Milano 2012, p. 31.
  • [34] Ivi, p. 14.

 

Pubblicato in Il mestiere del conoscitore. Roberto Longhi a cura di Anna Maria Ambrosini Massari, Andrea Bacchi, Daniele Benati, Aldo Galli, Bologna, Fondazione Federico Zeri, 2017, pp. 385-407.