fondazione zeri

di Keith Christiansen

Longhi e Valentin

In occasione della mostra parigina del 1934 Les peintres de la réalité[1], Longhi faceva una specie di recensione in un’auto-intervista - un espediente che a lui piaceva molto come modo informale per esprimere le proprie idee. Ricordiamo che si trattava una mostra che ha ridimensionato la nostra visione della storia della pittura francese del Seicento. Longhi, con la sua reputazione internazionale, faceva parte del comitato scientifico; Charles Sterling - giovane e dotatissimo curatore al Louvre (aveva appena 33 anni) - firmava l’introduzione. L’ambizione degli organizzatori era niente meno che di eguagliare l’effetto della grande, quasi mitica mostra, sulla pittura dei primitivi francesi del 1904. In effetti, scriveva Sterling: «si un jour on fait à cette exposition le grand honneur de la comparer à celle des Primitifs français, organisée en 1904 […] son but aura été atteint». E infatti, l’effetto fu simile. Undici anni fa, nel 2006, è stata dedicata una nuova mostra alla memoria di quella del 1934, ripubblicando il catalogo con aggiornamenti in margine. Mi chiedo se sia possibile oggi concepire una mostra con una simile visione d’insieme e un tale effetto[2].

Comunque sia, nella mostra del ’34 la grande scoperta per il pubblico - e anche per gli specialisti – fu costituita dalla presenza di dodici quadri di Georges de La Tour (alcuni erano copie, altri nuove attribuzione) e di dieci quadri dei fratelli Le Nain. Si trattò della ‘presentazione ufficiale’ dei due, e l’effetto suscitato può essere misurato a partire dal numero di grandi mostre monografiche dedicate a La Tour negli anni successivi: due a Parigi, nel 1972 e 1997, una a Washington nel 1996, un’altra a Madrid nel 2016. Esistono inoltre monografie sull’artista in varie lingue, nonché il catalogo dell’Opera completa - indicazione sicura dell’entrata del suo nome nel canone ufficiale. È più o meno la stessa storia con i fratelli Le Nain: una grande mostra a Parigi nel 1978, un’altra a San Francisco, Fort Worth e Parigi nel 2017; e, di nuovo, la pubblicazione dell’Opera completa.

Secondo Charles Sterling, La Tour era l’artista più enigmatico e fra i più originali del Seicento, la cui riscoperta per il XX secolo era paragonabile, per certi aspetti, a quella di Jan Vermeer per il XIX: un artista che sembrava privilegiare i valori formali rispetto al soggetto o all’espressione. Si può documentare la crescente ammirazione per il pittore analizzando gli acquisti del Louvre. Il primo quadro ad entrare nel museo fu la magica Natività, nel 1926 - soltanto undici anni dopo l’articolo fondamentale di Herman Voss nel Archiv für Kunstgeschichte; gli altri sette (incluse due copie) furono acquisiti dal 1948 in poi, con una certa accelerazione negli anni Settanta. Ancora più impressionanti sono gli acquisti dei musei americani negli stessi anni del dopoguerra: 1948, l’Istruzione della Vergine del Frick Museum (subito dopo considerato una copia); 1951, San Pietro penitente di Cleveland; 1956, i Due vecchi di San Francisco; 1960, La buona ventura del Metropolitan Museum di New York (fig. 1) (l’esportazione dalla Francia creò uno scandalo e André Malraux, come ministro della cultura, dovette difendersi davanti a un tribunale); 1963, la Maddalena Wrightsman, anche questa ora al Metropolitan; 1972, la Zuffa del Getty Museum. Dopo il successo clamoroso della mostra parigina del 1972: 1974, la Maddalena di Washington; 1977, la Maddalena di Los Angeles; 1981, I Bari del Kimbell Museum a Fort Worth.

Anche - o piuttosto soprattutto - Longhi rimase colpito da de La Tour. Nell’auto-intervista del 1935 domandava il proprio parere sull’artista (fino a quel momento si era concentrato sugli artisti francesi che avevano lavorato in Italia): «mi rimane ancora da chiederle una sua precisione sul de La Tour. In questi giorni se ne leggono delle apologie ingegnosissime». Risponde Longhi alla sua auto-domanda: «Lei dovrebbe vederlo! È un pittore sorprendente. Non abbiamo strumenti per misurare il genio; ma sento che il talento del de la Tour spezzerebbe più di un manometro»[3]. Qui siamo di fronte al genio di Longhi (si ricorderà il dialogo immaginario sul ponteggio della cappella Brancacci fra Masaccio e Masolino nel saggio Fatti di Masolino e di Masaccio[4]). Qui, in una specie di dialogo pseudosocratico, rivolge a se stesso la domanda a cui avrebbe voluto rispondere, creando così l’impressione che la domanda posta sia quella più urgente.

Passiamo al caso di Valentin. In confronto all’effetto suscitato da de La Tour e dai fratelli Le Nain, quello di Valentin fu piuttosto modesto. Pensate: abbiamo a che fare con un artista che non ha mai perso il proprio prestigio in Francia. I suoi quadri sono stati molto ricercati dai collezionisti durante il Seicento, sia in Italia che Oltralpe: Mazzarino possedeva otto suoi dipinti; quadri di Valentin furono scelti per decorare la Chambre du Roi a Versailles; le Quattro età dell’uomo, opera posseduta da Jacques Bordier - avvocato del parlamento di Parigi e collezionista - valeva più di un Baccanale di Poussin. Inoltre, a Roma, nel Settecento, Jacques Louis David copiò l’Ultima Cena di Valentin, oggi conservata alla Galleria Nazionale di Palazzo Barberini ma originariamente realizzata per la Galleria di Palazzo Mattei (peccato che la copia di David sia perduta). La fortuna di Valentin non conobbe oscillazioni nell’Ottocento[5]. Charles Blanc dedicò all’artista una biografia all’interno della sua Storia della Pittura del 1862, definendolo «uno degli artisti francesi più celebri» - questo nel momento cruciale del nuovo movimento del Realismo in Francia. Non a caso, Blanc sceglie di introdurre l’artista descrivendo la visita immaginaria di un rappresentante di quel movimento, realista e bohémienne, i cui membri non si fermano davanti ai quadri sublimi di Le Sueur ma «preferiscono qualche scena volgare in cui la carne palpitante si distacca dal fondo oscuro». Data la reputazione di Valentin e la sua importanza per l’arte francese, ci si poteva aspettare una presenza cospicua di sue opere nella mostra del 1934 e non soltanto quattro dipinti. E allora, cosa era successo?

Prima di tutto, sospetto che l’artista sembrasse forse troppo ‘familiare’ agli organizzatori: ci voleva una scoperta eclatante, o perlomeno una novità. Ma c’è un’altra cosa da considerare. La Tour rientrava perfettamente nell’estetica moderna emergente dopo la Prima Guerra Mondiale, il cui gusto era dominato da un modernismo moderato, basato sui modelli classici del passato promossi dalla rivista «Valori Plastici» e da Le rappel a l’ordre di Jean Cocteau. È il momento del cosiddetto ‘neoclassicismo’ di Picasso, dei quadri pierfrancescani di Balthus, e, in Italia, della Metafisica e del Realismo Magico di Alberto Savinio, Carlò Carra, Giorgio Morandi, Antonio Donghi e Felice Casorati (fig. 2). In effetti, troviamo Longhi descrivere un quadro famoso di La Tour in questi termini:

Ma che quadro, quello dei «Bari»! Che strampalata precieuse, la cortigiana lorenese alla moda del 1630! Questo suo viso come un ovo di struzzo farà certamente spasimare il nostro Casorati, ma non sarà questa una ragione per cantar vittoria, perché, qui, l’arcaismo è provvidenzialmente avvolto da una verità di lume, per quanto eccezionale[6].

È, insomma, un’analisi del tutto in linea con il movimento di «Valori Plastici». L’idea di una «verità di lume» è un referente costante dell’estetica longhiana, sia quando scrive su Masaccio, Piero della Francesca, Giovanni Bellini, sia quando tratta di Caravaggio, o Gentileschi. Ovvio che l’analogia del viso con un uovo di struzzo rimanda al paragone con Piero della Francesca, il cui esempio è stato così importante anche per Casorati. Non bisogna dimenticare che gli studi longhiani su Caravaggio procedevano di pari passo con quelli su Piero, sul quale - come si ricorda bene - Longhi ha scritto un famoso libro uscito nel 1927[7]. Vale la pena ricordare, di quel libro, la descrizione di Longhi del Sogno di Costantino nel ciclo della Croce ad Arezzo:

offrendoci [Piero] in essa la pittura forse più inaspettata di ogni tempo italiano: un’opera dove il fiabesco notturnale del gotico collima col classicismo antico, col luminismo struttivo del Caravaggio, con quello magico del Rembrandt, e persino, con la pesatura pulviscolare del Seurat[8].

Il gusto dell’arcaismo unito alla propensione a privilegiare uno stile nazionale spiega anche la preferenza nella mostra parigina del ’34 per le opere di Nicolas Tournier dopo il suo rientro in Francia - non quelle romane fatte ‘all’ombra’ del Manfredi - e per le nature morte di Lubin Baugin, di moderna semplicità formale. Cosi, nella pala d’altare di Tournier con la Lamentazione sul Cristo (Tolosa, Museo Tessé), Sterling esalta - in maniera molto indicativa per quel momento – il fatto che l’artista non vi sia debitore né dell’Italia né delle Fiandre, e sottolinea come l’espressione dolorosa delle figure di Giuseppe di Arimatea e di san Giovanni Evangelista ricordi i primitivi (immagino che Sterling avesse in mente la tavola di Jean Fouquet a Nouans-les-Fontaines), consentendo dunque di individuare una traccia dell’autentico stile francese (ma si ricordi che anche Fouquet è andato in Italia e poi rientrato in patria).

Bisogna sottolineare a questo punto che non c’è niente di arcaico o dei profumi dell’incenso chiesastico dei primitivi nei quadri di Valentin: è un pittore completamente moderno, ma nel senso dell’avanguardia del Seicento e persino del movimento realistico dell’Ottocento, non in accordo con il gusto dello pseudo-classicismo da frigorifero del dopoguerra. Potremmo discutere la validità di una storia dell’arte che ricostruisce il passato basandosi sul gusto del presente. Lo apprezzo come fenomeno estetico, ma non dobbiamo confondere i nostri valori con quelli dei nostri antenati. Come un professore mi diceva anni fa: «siamo qui non per approvare ma per capire».

Comunque, c’era qualcos’altro che limitava lo spazio concesso a Valentin nella mostra. Secondo Sterling, Valentin era sì un vero seguace di Caravaggio ma era anche l’artista meno francese, non solo perché non aveva lavorato in Francia, ma anche, soprattutto, perché mancava in lui la maniera solenne tipica del suo paese. Un argomento dunque basato sull’idea di uno stile nazionale. Longhi, da parte sua, aveva capito bene questa posizione critica e si poneva perciò la domanda: «i nuclei caravaggeschi della mostra non erano forse abbastanza nutriti?». E rispondeva a se stesso:

Al contrario! […]. Soprattutto per quel che riguarda il misterioso Georges de la Tour che ne esce da trionfatore. Un po’ meno forse per il Valentin, pittore efficacissimo, ma che i nostri amici francesi tengono un po’ in sordina perché par loro troppo italiano. Toccherà a noi di spiegare quanto egli ci sembra transalpino per il suo umore melanconico appassionato, per il suo caravaggismo sentimentalizzato che, al postutto, ci piace moltissimo[9].

Si dovettero aspettare otto anni perché egli approfondisse le sue idee nel fondamentale saggio Ultimi studi sul Caravaggio e la sua cerchia, pubblicato, si ricorda, nella rivista «Proporzioni» nel 1943[10], soltanto tre anni dopo l’articolo, altrettanto importante, Fatti di Masolino e di Masaccio, apparso in «Critica d’Arte». Di nuovo, Longhi notava che «né il Valentin, né il Serodine sono stati fin oggi intesi come si dovrebbe». Ma, mentre nel 1987 e, ancora, nel 2013 abbiamo avuto due mostre sul Serodine - artista imprevedibilmente emozionante e costantemente originale – fino a oggi ne mancava una per Valentin - un genio anche più grande, credo. Nella Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi tenutasi al Palazzo Reale di Milano nel 1951 - evento fondamentale per gli studi posteriori - Longhi ha voluto testimoniare il ruolo storico di Valentin includendovi ben sei quadri dell’artista[11]. Poi, nel 1958, notando l’urgenza di ricostruire un catalogo corretto del pittore e di studiare gli anni cruciale del movimento caravaggesco dal 1615 fino al 1632, ha pubblicato un primo elenco delle opere che lui considerava autografe e non[12] (come prova della sua considerazione per l’artista francese, egli ha scambiato un quadro di Giuseppe Maria Crespi della sua collezione con la magnifica Negazione di san Pietro, un dipinto abbastanza precoce, fig. 3). Si dovette però attendere la mostra dei caravaggeschi francesi all’Accademia di Francia a Roma e poi al Grand Palais di Parigi del 1973-1974 (figg. 4-5) perché le sue idee trovassero una risposta di grande intelligenza nella curatela di Jean-Pierre Cuzin e Arnold Bréjon de Lavergnée[13]. Ancora oggi i commenti in questo catalogo costituiscono il punto di partenza per qualsiasi ricerca sull’artista.

Nel saggio del 1943 Longhi commentava in questo modo lo stato della critica su Valentin, fino a quel momento fissata su una qualche idea sclerotizzata:

Su quella falsariga [del principio naturalistico] si finirebbe per dar più credito ai pochi tratti accomodati e francesemente razionalistici nell’opera del Valentin che non alla sua intelligente frattura del precedente manfrediano; una costante indipendenza mentale che gli consente, ancora nel 1629, ciò che non era riuscito al Caravaggio stesso nel 1605, di piantare fieramente la vecchia bandiera caravaggesca su un altare di San Pietro e, si pensi, proprio accanto allo stendardo del nuovo crociato dell’Accademia, Nicola Poussin[14].

Tornerò a breve su questa valutazione della «frattura intelligente» e «dell’indipendenza mentale» di Valentin, che a me sembra estremamente importante per capire la portata della sua arte. Ma per un momento vorrei ricordare un’altra osservazione che non compare nel testo, bensì nella lunga nota in cui Longhi inserisce le sue idee più particolari. È qui, in effetti, che Longhi riprende un’idea già avanzata in un articolo del 1926[15], e cioè che l’autore anonimo di un gruppo di quadri da lui catalogati sotto il nome del Maestro del Giudizio di Salomone abbia qualche legame con Valentin e che, forse, forse, possa essere identificato addirittura con la produzione giovanile del pittore (così scrive nel 1934). Longhi individuava una componente francese nell’opera namepiece del gruppo:

elementi sottintesi di origine classicistica […] inscenati in modo prevalentemente naturalistico e popolaresco, quasi con un poco di commedia. Tutto ciò – continua - ci riporta allo spirito dei francesi operanti a Roma nei primi decenni del Seicento; gli elementi di scenica classica che affiorano persino nel naturalismo del Valentin.

Per me non è importante il fatto che Longhi si sia certamente sbagliato sull’attribuzione di questi quadri, assegnandoli in un primo momento al mediocre Guy Francois, cambiando in seguito idea in favore dell’enigmatico collega fiammingo di Valentin Gérard Douffet. Quello che importa è che Longhi individuava un qualche legame tra il Maestro del Giudizio di Salomone e Valentin da una parte, e con Ribera dall’altra. Nella nota del 1943 egli accantonò questa attribuzione, senza però arrivare a una diversa soluzione (ha comunque giustamente respinto l’ipotesi di identificazione con Valentin, mantenendo ferma l’idea che si trattasse di un pittore di origine francese)[16]. Oggi, grazie a una propria intuizione che ha poi trovato conferma in alcuni inventari antichi, Gianni Papi è riuscito a stabilire che l’autore di questo gruppo di quadri è il giovane Ribera[17]. Ma - ed è questo il punto importante - grazie alle osservazioni di Longhi possiamo capire che il primo momento di Valentin (un momento quasi del tutto privo di documenti) va letto in sintonia con il giovane Ribera. In effetti, la ricostruzione del giovane Valentin si basa su questi primi appunti di Longhi, accantonati e poi sviluppati da Papi, il solo che ha tentato di studiare, singolarmente e nei loro legami reciproci, l’uno dopo l’altro, tutti gli artisti presentati da Longhi nel saggio del 1943. Il risultato costituisce un recupero e una ricostruzione fondamentale della pittura caravaggesca negli anni 1610-1620.

Possiamo ora meglio capire come questa «intelligente frattura del precedente manfrediano», notata da Longhi, sia stata facilitata dal genio di Ribera verso il 1615-1616. Ed è dopo quel momento - cioè, dopo il trasferimento di Ribera da Roma a Napoli - che possiamo parlare della cosiddetta «indipendenza mentale» di Valentin. In che cosa consiste tale indipendenza mentale? Per rispondere a questa domanda bisogna tornare per un attimo al testo del 1935, in cui Longhi identificava quelli che per me rimangono i punti cruciali per capire l’importanza storica del movimento caravaggesco. Scriveva:

era proprio l’atteggiamento etico di fronte all’uomo, alla storia, ai suoi miti che era cambiato con il Caravaggio. Soltanto dopo che il Caravaggio aveva capovolto in umano il modo di interpretare gli argomenti sacri ci si poteva dar coraggio di rappresentare, non come divagazione pittoresca (Bassano) o come ‘genere’ (fiamminghi e olandesi), ma con piena dedizione all’argomento, una «Famiglia di contadini»[18].

Immagino che Longhi avesse in mente la trasformazione della Vocazione di san Matteo da soggetto sacro a scena di taverna o, nel caso dei fratelli Le Nain, a scena ambientata in una casa di campagna. Spesso si focalizza il discorso sulla composizione del Caravaggio, caratterizzata dallo svolgersi di una scena religiosa in un interno modesto, abitato da figure in costume del tardo Cinquecento. Ma non era quella la novità, perché anche Baglione sapeva aggiornare la storia con figure vestite in costumi dell’epoca. La novità era piuttosto ‘l’aspetto di verità’ nella pittura, con figure ritratte dal vero e dal naturale.

Nelle mani dei seguaci di Caravaggio, e prima di tutti in quelle di Valentin, si vede come anche i soggetti derivati dalla mitologia classica o dalla Bibbia possono acquistare una qualità di sconcertante attualità e urgenza esistenziale. L’esempio offerto dal Caravaggio con il Davide con la testa di Golia mi sembra cruciale. È in un certo senso una meditazione sulla morte con un sottinteso autobiografico, ben compreso dai suoi coetanei. Ecco l’idea «etica» del quadro. Anche Guido Reni ha provato ad emulare quest’aspetto della rivoluzione caravaggesca, senza riuscire però ad accantonare l’esempio classico e dipingendo nel quadro al Louvre, nonostante tutto, un emblema di vittoria, come se la testa del gigante fosse un trofeo di guerra. Nel quadro oggi al Museo Thyssen a Madrid (fig. 6), Valentin, con un’invenzione davvero sorprendente, mette davanti a noi un giovane della strada, la sua faccia caratterizzata da un’espressione provocante e sconcertata di fronte a quanto ha appena fatto, la testa del gigante ancora sanguinante portata vicino allo spettatore, non come un trofeo, ma come il risultato, quasi tragico, della sua gara. E poi ci sono le reazioni contrastanti di un soldato in atteggiamento vittorioso e di uno spettatore inorridito. Mi sono chiesto se, sull’esempio del Caravaggio, la testa di Golia non possa essere una sorta di autoritratto, o comunque un autoriferimento. In questo caso avremmo un’identificazione dell’artista con la vittima, non con l’eroe.

Con un’opera come quella di Valentin in cui Sansone (Cleveland, Museum of Art, fig. 8) riflette sulla propria vittoria dopo aver ucciso mille Filistei con una mascella d’asino, il passato biblico è, di nuovo, proiettato nel presente e la figura - che raffigura indiscutibilmente un individuo reale e quasi certamente un autoritratto - è, anche in questo caso, al polo opposto dell’emblema di eroismo della grande tela di Guido Reni della Pinacoteca di Bologna. Oltre a soffermarsi su un momento psicologico, Valentin gioca in maniera ovvia anche sulla finzione della pittura e sull’idea del mito come un ‘pezzo’ di teatro, una mascherata, così come Velázquez farà nel suo Marte - un quadro che potrebbe essere meglio descritto come ‘un modello in posa nelle vesti del dio Marte’. In entrambe le opere, la dinamica cruciale è il dialogo creativo dell’artista con il modello piuttosto che con qualche idea astratta di bellezza. Scriveva Longhi nel saggio del ’43:

Caravaggio era stato posto in grado di meditare su un possibile ricominciamento della pittura; [.. ] e fin dagli inizi […] come ‘pittura diretta’, non cioè mediata stilisticamente, ma affatto immediata […], e cioè alla capacità di scegliere, fra miriadi, il fotogramma più lacerante e, diciamo pure, drammatico[.] Un fotogramma però, non trovato inconsapevolmente da una macchina da ripresa, ancor di là da venire, ma dalla volontà dell’‘occhio interiore’. Come dunque non ammettere che un tal modo di vedere resultava in piena antitesi così al Rinascimento, come all’imminente ‘barocco’?[19].

È un’osservazione valida anche per Valentin e chiaramente in atto nell’opera di Velàzquez.

La pittura caravaggesca ha creato una nuova dinamica tra l’artista e il suo modello, che non era più necessariamente scelto per la perfezione del corpo, come avvenne con il modello, molto ammirato, impiegato da Andrea Sacchi per posare come Apollo del Belvedere. Diversamente, Orazio Gentileschi scelse un pellegrino barbuto di Palermo, che aveva 73 anni, per dare al quadro di San Gerolamo una verità tutt’altro che emblematica o ideale. Ovviamente, questi ha posato nella bottega utilizzando degli appoggi per mantenere la posizione durante le ore di lavoro (sappiamo che ci sono voluti quasi quaranta giorni per finire il quadro!). È noto come Ribera cercasse vecchi con la pelle coriacea per i suoi apostoli, profeti e filosofi classici. Anche Guido Reni ha avuto un occhio di riguardo per i modelli le cui caratteristiche potevano essere utili nella raffigurazione dei protagonisti dei suoi dipinti. Reni è stato però attirato dallo schiavone che ha trovato sulle rive del Tevere perché il suo aspetto gli ricordava le statue romane di Seneca. Altri artisti caravaggeschi, invece, hanno studiato lo stesso modello semplicemente perché la sua testa calva e le orecchie sporgenti erano particolarmente memorabili — per Ribera, ad esempio, servì da modello per l’apostolo Bartolomeo. Egli appare anche nei quadri di altri artisti, tra cui Manfredi, Ribera, e Borgianni.

Una rapida occhiata ai quadri di Valentin rende evidente che anche lui aveva dei modelli preferiti, utilizzati in varie occasioni. Forse il più facilmente identificabile è l’uomo di mezza età con le sopracciglia marcate, il naso un po’ adunco e il fisico ben strutturato, che appare come divinità fluviale nell’Allegoria d’Italia, nei patriarchi Abramo e Mosè, nell’evangelista san Matteo, e come vecchio pastore in Erminia e i pastori. La ricorrenza di volti famigliari nei dipinti del Valentin ci fa pensare a una compagnia viaggiante di attori che, in risposta alle richieste del regista, assumono ruoli diversi a seconda del dramma o della situazione. Il pittore alza il sipario e i protagonisti sono sul palcoscenico, davanti a noi e sempre consapevoli della nostra presenza. Ci guardano, sollecitando una reazione. Ma questo uso ricorrente di modelli specifici indica anche il grado di connessione dei dipinti di Valentin con la realtà della vita e possono sembrare, a volte, meditazioni personali, sempre venate di malinconia, su momenti transitori di piacere o di dramma. Non conosco un esempio più calzante del suo Giudizio di Salomone (Parigi, Musée du Louvre, fig. 7) per spiegare il nostro coinvolgimento nell’azione che si sta svolgendo davanti a noi, con due vecchioni sullo sfondo, commossi dalla tragedia della morte del bambino, ma anche perplessi per l’azione precipitosa del giovane re - un re sempre giovane in Valentin, come se nei suoi dipinti ci fosse un rifiuto della prudenza dei vecchi! Anche l’impaginazione, con le figure tagliate in maniera del tutto inaspettata - quasi casualmente, secondo le modalità di una macchina da presa - e l’effetto dell’ordine del giovane re ancora in sospeso, con una madre che sta entrando sulla scena per supplicare e con l’espressione attonita del bambino strappato dalle braccia della falsa madre. Qui abbiamo una «intelligente frattura» rispetto al precedente non soltanto di Manfredi ma anche di Caravaggio; un’indipendenza mentale che sostiene il confronto con le più originali invenzioni del Merisi. In questi esempi si apprezza la maniera in cui Valentin crea uno spazio pittorico più profondo e più animato, con figure in pieno movimento. Valentin realizza, insomma, quella ‘qualità’ di vita che, per i critici da Mancini fino a Bellori, mancava nelle opere di Caravaggio. «S’avanzò più d’ogn’altro naturalista nella disposizione delle figure», diceva Bellori di Valentin. Ma preferisco il giudizio di Longhi e l’idea della sua «intelligente frattura» e «indipendenza mentale».

 


Note


  • [1] Les peintres de la réalité en France au XVIIe siècle, catalogo della mostra con prefazione di P. Jamot e introduzione di C. Sterling (Parigi, 1934), Parigi 1934. Il testo di R. Longhi, I pittori della realtà in Francia, ovvero i caravaggeschi francesi del Seicento, uscì il 19 gennaio 1935 su «L’Italia Letteraria», e fu ristampato su «Paragone», XXIII, 1972, 269, pp. 3-18 (ora in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 11/2, Studi caravaggeschi, 1935-1969, Firenze 2000, pp. 1-11).
  • [2] Orangerie, 1934. Les "peintres de la réalité", catalogo della mostra a cura di P. Georgel (Parigi, 2006-2007), Parigi 2007. 
  • [3] R. Longhi, I pittori della realtà cit. (nota 1), p. 7.
  • [4] R. Longhi, Fatti di Masolino e di Masaccio [1940], ora in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 8/1, ‘Fatti di Masolino e di Masaccio’ e altri studi sul Quattrocento, 1910-1967, Firenze 1975, pp. 3-65.
  • [5] Cfr. A. Lemoine, Valentin in the Grand Siècle, e J.-P. Cuzin, Valentin. A French Painter, entrambi in Valentin de Boulogne, beyond Caravaggio, catalogo della mostra a cura di A. Lemoine e K. Christiansen (New York-Parigi, 2016-2017), New Haven-Londra 2016, rispettivamente pp. 57-63 e 65-75.
  • [6] R. Longhi, I pittori della realtà cit. (nota 1), pp. 8-9.
  • [7] R. Longhi, Piero della Francesca [1927], ora in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 3, Piero della Francesca, 1927, Firenze 1963, pp. 1-79.
  • [8] Ivi, p. 36
  • [9] R. Longhi, I pittori della realtà cit. (nota 1), p. 2.
  • [10] R. Longhi, Ultimi studi sul Caravaggio e la sua cerchia [1943], ora in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 11/1, Studi caravaggeschi, 1943-1968, Firenze 1999, pp. 1-54.
  • [11] Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi, catalogo a cura di R. Longhi [1951], ora in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 11/1 cit. (nota 10), pp. 59-135 123-124.
  • [12] R. Longhi, A propos de Valentin [1958], ora in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 11/2 cit. (nota 1), pp. 209-2017.
  • [13] I caravaggeschi francesi, catalogo della mostra a cura di A. Brejon de Lavergnée e J.-P. Cuzin (Roma-Parigi, 1973-1974), Roma 1973.
  • [14] R. Longhi, Ultimi studi sul Caravaggio cit. (nota 10), p. 28.
  • [15] R. Longhi, Precisioni nelle Gallerie Italiane. La Galleria Borghese: Guy François? [1926], ora in Edizione delle opere complete di Roberto Longhi, vol. 2/1, Saggi e ricerche, 1925-1938, Firenze 1967, pp. 273-274.
  • [16] R. Longhi, Ultimi studi sul Caravaggio cit. (nota 10), pp. 49-50 nota 80.
  • [17] G. Papi, Jusepe de Ribera a Roma e il Maestro del Giudizio di Salomone, «Paragone», XLIV, 2002, 629, pp. 22-43.
  • [18] R. Longhi, I pittori della realtà cit. (nota 1), p. 9.
  • [19] R. Longhi, Ultimi studi sul Caravaggio cit. (nota 10), p. 3.

 

Pubblicato in Il mestiere del conoscitore. Roberto Longhi a cura di Anna Maria Ambrosini Massari, Andrea Bacchi, Daniele Benati, Aldo Galli, Bologna, Fondazione Federico Zeri, 2017, pp. 345-363.