fondazione zeri

di Alessandro Brogi

Ancora un dipinto Tanari: La Famiglia di Dario

Spetta a Mitsumasa Takanashi, che ringrazio sentitamente per la preziosa collaborazione offertami con la messa a disposizione del suo ricco materiale fotografico, quello che può ritenersi il più importante recupero ludovichiano degli anni più recenti, meritevole di un’eco ben maggiore di quella sinora ricevuta[1]. Mi riferisco al grande lacerto[2] di un dipinto, assai noto in antico, di cui si erano perse le tracce dopo la sua uscita, entro la metà dell’Ottocento, da una collezione storica bolognese di primissimo rango come quella, una volta di più, dei marchesi Tanari (fig. 1). I quali possedevano senz’altro la più varia e ricca selezione di opere dell’artista disponibile presso un privato a Bologna: ben tredici, scalate nel corso della sua intera carriera. La prima citazione è nel celebre inventario dei beni di Alessandro Tanari, redatto nel 1640, che lo registra «Nella sala grande di sopra», e al nome di Ludovico, come «Alessandro Magno che parte dalla sua donna la mattina per tempo». Più tardi Malvasia, descrivendolo come un sopraporta, ne preciserà il soggetto tratto dalla storia antica, «Alessandro Magno a cavallo che si licenzia dalla moglie di Dario», ribadendone al contempo l’attribuzione al suo beniamino, nonostante - egli dice - fosse «tenuto comunemente per di Annibale». In seguito lo ricordano ancora presso i Tanari, nel Settecento, Marcello Oretti e nel secolo successivo Belvisi, che nel 1825 lo dice tuttora in loco, sebbene ciò non escluda la possibilità che la tela a quelle date fosse già emigrata[3].


“Difficile dire quando e perché il dipinto sia stato letteralmente tagliato a metà, insieme alle bella cornice originale riadattata alle nuove misure: quel che ne resta è appunto la parte sinistra, con la famiglia di Dario fatta prigioniera da Alessandro dopo la battaglia di Isso, prostrata a terra sotto una tenda di fortuna, con la moglie del re persiano, la vecchia madre di questi e i figli, rivolti verso il vincitore giunto a onorarli”


Di sicuro c’è, come le ricerche di Takanashi hanno appurato, che il dipinto in oggetto compare in Inghilterra sulla metà del XIX secolo nella collezione Stanhope a Revesby Abbey, nel Lincolnshire[4], giungendo per eredità nel 1916, alla morte di Richard Philip Stanhope, alla moglie Lady Beryl Gilbert. Di qui la vendita a Londra l’8 febbraio 1918 come: «L. Carracci, “The Fam. of Darius”»[5], e infine, attraverso un ulteriore passaggio, l’approdo in Giappone, dove la tela, già mutila al momento della messa all’asta, è documentata a partire dagli anni Venti del secolo scorso, e dove tuttora si conserva, in deposito da privati, presso il National Museum of Western Art di Tokyo. Difficile dire quando e perché il dipinto sia stato letteralmente tagliato a metà, insieme alle bella cornice originale riadattata alle nuove misure: quel che ne resta è appunto la parte sinistra, con la famiglia di Dario fatta prigioniera da Alessandro dopo la battaglia di Isso, prostrata a terra sotto una tenda di fortuna, con la moglie del re persiano, la vecchia madre di questi e i figli, rivolti verso il vincitore giunto a onorarli. Tuttavia che si tratti di Ludovico e dunque di quel famoso ‘sovruscio’, sciogliendo con ciò le caute riserve in merito all’autografia espresse dallo studioso giapponese, non vi sono dubbi. Ma non solo: la strabiliante tenuta di questo lacerto, giudicabile anche in riproduzione, e la bellezza delle idee ne fanno, è il caso di aggiungere, uno dei capolavori dell’artista. Qualche piccolo strappo ricomposto interessa qua e là la tela, che non risulta aver subito restauri o puliture recenti, senz’altro non da quando si trova in Giappone. E neppure ritocchi. Ragion per cui, a prescindere da un naturale ingiallimento delle vernici, la superficie pittorica appare particolarmente godibile, in quanto integra, mai svelata, e quindi ricchissima nei passaggi. Proprio questa mirabile scioltezza del ductus e la tavolozza satura, anzi sontuosa (memorabile il vermiglio del manto di Statira), che si fonde con l’ombra densa, carica di pathos, collocano il dipinto al culmine della stagione ‘veneziana’ del pittore, sui primi anni Novanta, come giustamente intuito da Takanashi. Il quale chiama a confronto opere come la Pala di Cento (Museo Civico), del 1591, e la Predica del Battista (Bologna, Pinacoteca Nazionale), dell’anno successivo (figg. 2-3)[6], anche se le affinità più stringenti si colgono, a dire il vero, soprattutto con la prima Sant’Orsola, sempre del 1592 (ancora Bologna, Pinacoteca Nazionale) o con la coeva Trinità della Pinacoteca Vaticana (figg. 4-5), ma più ancora forse con un’opera trascurata eppure bellissima come l’Allegoria della Pace conservata in palazzo Poggi a Bologna: affresco staccato che in origine doveva decorare una fuga di camino, databile a questo stesso momento, fra 1590 e 1592 (fig. 6). L’atmosfera di ombroso e melanconico patetismo che avvolge la famiglia di Dario percorre in termini analoghi questa figura femminile, illuminata dal basso e restituita, al netto del divario tecnico, con la stessa libertà di materia che ammiriamo nella tela, per non dire poi del suo volto, reclinato con la stessa dolcezza e quasi identico dal punto di vista tipologico a quello della regina persiana.


“...l’accoramento si fa luce e colore, e soprattutto ombra, un’ombra che riempie l’aria e stende sui protagonisti del dramma, sui loro incarnati bruniti e palpitanti, come un duolo diffuso, tra Tasso e Monteverdi, quasi il timbro patetico di una nota tenuta di ‘basso’, calda e profonda.”


Come nei capolavori citati, anche nel dipinto nuovo l’accoramento si fa luce e colore, e soprattutto ombra, un’ombra che riempie l’aria e stende sui protagonisti del dramma, sui loro incarnati bruniti e palpitanti, come un duolo diffuso, tra Tasso e Monteverdi, quasi il timbro patetico di una nota tenuta di ‘basso’, calda e profonda. Con effetti però tutt’altro che monotoni: prezioso il luccicare dei gioielli e delle chiome lustre delle figlie (esattamente come nella Sant’Orsola o nella Trinità), e straordinaria l’idea di staccare sui bagliori aranciati del cielo il profilo bellissimo della vecchia madre, rivolta verso la perduta figura del visitatore. Se tutto denuncia il divampare della passione per la pittura lagunare, resta ancora però, almeno sul piano compositivo, una traccia del precedente amore per Correggio nel moto sgusciante delle due fanciulle e soprattutto nel bambino, le braccia aperte e la testa ricciuta che si volge all’indietro verso l’osservatore: richiamo esplicito al piccolo Gesù della Madonna della scodella. Ma l’altra componente, quella veneziana, prevale e una volta di più, spremendo dall’albero di Venezia una linfa nuova e tutta sua, le corde toccate da Ludovico con quest’opera si rivelano quelle di un lirismo acceso, tutto sensi e turgori, foriero dei più fecondi sviluppi nel secolo a venire: il lucore denso e prezioso che emana dai gioielli della moglie e delle figlie di Dario pare già quello della ricca broche che orna il corsetto di Hélène Fourment, nel ritratto di Rubens, un Rubens maturo, oltre il 1630, nella Galleria Pallavicini a Roma. E si capisce bene, poi, perché questa tela passasse «comunemente» per opera del più giovane cugino.


“...il lucore denso e prezioso che emana dai gioielli della moglie e delle figlie di Dario pare già quello della ricca broche che orna il corsetto di Hélène Fourment, nel ritratto di Rubens...”


Come è ben noto, tre erano i dipinti, in collezione Tanari, dedicati alla figura dell’imperatore macedone, eponimo del marchese Alessandro, e tutti di Ludovico. Oltre a quello in esame, uno, ancora un sopraporta, con Alessandro e Taide, è riemerso da tempo presso Feigen a New York (fig. 7)[7], il terzo, una fuga da camino con la Nascita di Alessandro, che resta ancora disperso, è però testimoniato da un bel disegno finito delle raccolte reali inglesi, riconosciuto a suo tempo da Wittkower, che lo datava giustamente alla metà del primo decennio del Seicento (fig. 8)[8]. L’incontrovertibile datazione alta, sul 1591-1592, del dipinto qui discusso smentisce definitivamente l’ipotesi avanzata da Keith Christiansen che le tre tele dedicate alla figura di Alessandro fossero il frutto di un’unica commissione, da collocarsi sul 1611-1612[9]. Tale datazione d’altronde è giustificata dallo studioso unicamente con la presenza, nel disegno inglese preparatorio per la Nascita, di alcuni elementi araldici borghesiani (il drago e l’aquila), stante il permesso concesso non prima del 1611 al marchese Tanari da parte Paolo V di includere nelle proprie insegne i simboli araldici di casa Borghese. Ma il semplice inserimento in una composizione di storia di qualche riferimento araldico, sciolto nel racconto, non necessita di un permesso, costituendo magari, al contrario, un allusivo omaggio alla casata romana e forse a Camillo stesso, col quale il Tanari era in stretti e sempre più interessati rapporti da lungo tempo, almeno da quando, fra 1588 e 1591, questi era stato legato a Bologna. Sempre che l’aquila e il drago-serpente non siano invece, come altri hanno inteso, semplicemente un richiamo alla discendenza mitica di Alessandro riportata da Plutarco che vedeva in Zeus, unitosi alla madre in forma di serpente, il vero padre del macedone. Senza dire che la composizione testimoniata dal disegno inglese non regge una datazione al secondo decennio del Seicento. Le forme piene, l’eloquio nobile e maestoso, di chiara ispirazione classicista, ne fanno, come del resto riconosce lo stesso Christiansen, una delle composizioni ludovichiane «most classically conceived», del tutto a suo agio accanto a cose come la Nascita del Battista del 1603[10] o le invenzioni olivetane per San Michele in Bosco, del 1604-1605, giustificando appieno la datazione appunto al 1605 circa intuita da Wittkower (figg. 9-10)[11]: tra l’altro il 1605 è proprio l’anno in cui Camillo Borghese sale al soglio pontificio col nome di Paolo V. Meno ancora quella idea regge il confronto con un dipinto per la verità assai provato come il San Sebastiano gettato nella Cloaca Massima Barberini documentato al 1612 (fig. 11), né si può spiegare un tale scarto, e soprattutto a tali date, con l’alternanza tipicamente ludovichiana dei registri espressivi a seconda delle diverse situazioni iconografiche; alternanza appunto di registri, non radicale cambio morfologico e sintattico. Senza dire che per l’Alessandro e Taide la più convincente collocazione cronologica resta, a sua volta, quella al 1608-1609, in parallelo con gli ultimi lavori piacentini (fig. 12).


“Sempre che l’aquila e il drago-serpente non siano invece, come altri hanno inteso, semplicemente un richiamo alla discendenza mitica di Alessandro riportata da Plutarco che vedeva in Zeus, unitosi alla madre in forma di serpente, il vero padre del macedone.”


Per tornare alla tela giapponese, i motivi di interesse da essa offerti, tuttavia, non si esauriscono qui, poiché il suo riemergere chiama in causa, e in maniera piuttosto spiazzante, anche la produzione grafica del pittore. Su suggerimento di Catherine Loisel, lo studioso giapponese individuava in uno studio a matita rossa oggi a Windsor (fig. 13)[12], non tra i più noti, un disegno preparatorio per la figura del figlioletto in braccio alla madre, disegno che Babette Bohn aveva posto in labile rapporto con la Pala di Cento[13]. Assegnato a Ludovico in via dubitativa sin dai tempi di Wittkower, il disegno, sicuramente tratto dal vivo e ad evidenza giovanile, si conferma così come un sicuro studio preparatorio autografo per la tela Tanari. Ma vi è un altro foglio giustamente collegato da Takanashi al dipinto, che apre prospettive avvincenti. Si tratta del magnifico studio conservato al Louvre con due giovinette a mezza figura che guardano verso destra, anch’esso senz’altro ‘dal vivo’, celeberrimo e tra i più ammirati di tutta la produzione grafica carraccesca (fig. 14)[14]: anzi, uno degli esempi presi da sempre a paradigma di quella particolare attitudine all’osservazione autonoma e quasi casuale della realtà (cioè non direttamente funzionale alla progettazione pittorica), affidata allo schizzo estemporaneo, così tipica dei Carracci e di Annibale in particolare, cui il foglio è infatti riferito da molto tempo e da tutta la letteratura moderna, me compreso[15], con una datazione precoce, entro la metà degli anni Ottanta del Cinquecento. Ma il rapporto con le giovani figlie di Dario nel dipinto in questione è indubitabile (fig. 15), il che impone a questo punto di restituire definitivamente il disegno allo stesso Ludovico, sul quale del resto, indipendentemente dal presente ritrovamento, lo aveva già dirottato tempo fa Daniele Benati[16], e al quale, volendo, lo assegnava un’antica scritta in francese, vergata a penna sul recto, molto probabilmente settecentesca. Vero è che la grafica ludovichiana non ci ha abituati a simili tenerezze di segno e a un così spiccato correggismo, ma l’ipotesi dell’utilizzo di un’invenzione del più giovane cugino da parte di Ludovico, specie a queste date, è per me fuori discussione, né se ne danno mai altri casi[17]. E poi, a ben vedere, sembra mancare a questo foglio la qualità più grassa e corposa propria del segno di Annibale[18], più che mai avanzandone com’è d’obbligo la cronologia. Ugualmente tenero è, d’altronde, anche l’altro disegno senz’altro di Ludovico poc’anzi citato e in completa sintonia con le fanciulle parigine appare soprattutto, guardandolo con occhi nuovi, lo studio famosissimo già Ellesmere per l’acquaforte con la Sacra Famiglia sotto un voltone: stessa dolcezza di sfumati, identica tipologia della Vergine, analogo articolarsi delle mani (fig. 16). Del resto, il dipinto stesso, come riporta Malvasia, era creduto da certuni di Annibale. Tutto ciò, in ogni caso, stante la natura quasi certamente estemporanea di entrambi gli studi connessi alla tela nuova, prova una volta di più quanto dietro a invenzioni ‘alte’ si celino spesso spunti tratti dalla verità più semplice, chiamati a infondere autenticità umana e sentimentale ai soggetti di storia, anche i più nobili: ovvero la longhiana «apertura di finestra», motore profondo, anche se tutt’altro che unico, della riforma carraccesca. Questione in ogni caso da non mischiare con le problematiche, assai diverse, poste dai dipinti ‘bassi’ di Annibale, che tra l’altro è forse errato leggere semplicemente come incunaboli della nascente pittura di genere[19].

 


        Note


  • [1] Cfr. Takanashi 2013 (con testo in giapponese e abstract in italiano). Dell’importante ritrovamento infatti nessuno sembra aver preso nota: ancora come disperso lo si ricordava in Italian Paintings 2010, p. 131.
  • [2] Olio su tela, cm 132,5 x 117. Sulla cornice un vecchio cartellino: ‘Family of Darius, Ludovico Carracci’.
  • [3] Per la vicenda antica: Brogi 2001, vol. 1, pp. 278-279, P4.
  • [4] La residenza, che sorge nei dintorni di Boston, in Inghilterra, risulta attualmente in fase di recupero: disabitata dagli anni Sessanta del secolo scorso, era giunta a un tale stato di degrado da aver rischiato la demolizione. Sulle rovine di un antico monastero cistercense soppresso con la Riforma a metà Cinquecento, si sono susseguiti nel tempo, secondo una prassi consueta in Inghilterra, vari interventi di trasformazione dell’esistente ad uso residenziale. L’attuale dimora neo-Tudor fu costruita nel 1845 da William Burn per James Banks Stanhope (1821-1904), probabilmente demolendo del tutto l’ultimo intervento precedente, quello settecentesco.
  • [5] Londra, Christie’s, Ancient and Modern Pictures & Drawings, 8 febbraio 1918, n. 123 (senza illustrazione).
  • [6] Probabilmente traviato da una certa tradizione critica, Takanashi adduce a confronto anche Il sogno di santa Caterina della National Gallery of Art di Washington che tuttavia, come ho avuto modo di sostenere più volte (Brogi 2001, vol. 1, pp. 182-183, cat. 68), non può spettare in alcun modo a questo momento, come parte della critica ha sostenuto e continua a sostenere (Robertson 2008, p. 92, nota 238), bensì ad anni successivi giacché nulla presenta della ricchezza cromatica e di ductus propria di quella precisa fase.
  • [7] Brogi 2001, vol. 1, pp. 212-213, cat. 98. E più di recente: Italian Paintings 2010, pp. 131-133.
  • [8] Wittkower 1952, p. 105, n. 141. Sulla proposta di riconoscere il dipinto disperso in uno conservato oggi in Russia, vedi più avanti, nel paragrafo dedicato ai refusés.
  • [9] Christiansen 2003.
  • [10] Com’è noto, una scritta antica sul retro della tela attesta che il dipinto (oggi Bologna, Pinacoteca Nazionale) fu posto in opera, ovvero sull’altar maggiore della chiesa bolognese di San Giovanni Battista, il 17 giugno del 1604: Brogi 2001, vol. 1, pp. 193-194, cat. 81; e G. Feigenbaum, in Pinacoteca Nazionale 2006, pp. 258-260, cat. 174. Commissionata da suor Alessandra Ratta, priora del convento di San Giovanni
  • Battista, per il tramite di Camillo Bolognini, al fine di portare a compimento il volere del defunto fratello monsignor Dionigi Ratta, alto prelato bolognese che aveva ricoperto numerose cariche nella curia romana e aveva fatto ricostruire la chiesa anni addietro, la grande pala risulta già compiuta nel 1603, e in parte pagata, ma non ancora in situ, a conferma dunque della antica scritta: cfr. Cammarota 2009, p. 60 e nota 8, che pubblica nuovo e interessantissimo materiale documentario sulla vicenda della commissione, del rinnovamento della chiesa, della causa legale sorta a un certo punto fra la famiglia Ratta e il convento, in ragione delle ingenti spese derivanti dall’esecuzione dei desideri del defunto. Lo stesso Ratta era stato anni prima, nel corso del nono decennio del Cinquecento, promotore e finanziatore del rinnovamento architettonico di un’altra chiesa conventuale bolognese, quella di San Pietro Martire, presso il cui monastero un’altra sorella, col nome di suor Lucrezia, era monaca dal 1562; per essa egli, ancora in vita, aveva commissionato a Ludovico, sempre per il tramite di Camillo Bolognini, la grande Trasfigurazione di Cristo, anch’essa oggi nella Pinacoteca della città. Anche questo dato è oggi una certezza grazie alle ricerche di Cammarota che ha reperito il contratto per la pala datato 19 gennaio 1595, contratto che ne fissa la consegna entro l’agosto dello stesso anno, ancorando così una volta per tutte al 1595 la datazione dell’immenso dipinto.
  • [11] Un altro studio con diversa composizione ma analogo soggetto era testimoniato da un’incisione di Francesco Rosaspina, che reca in calce la seguente scritta: «Pensiero di Lod:° Caracci pel quadro rap[presentan]te la nascita di Alessandro che si conserva nella galleria Tanara. Dal disegno originale appartenuto al Sig. Antonio Armano». Si trattava evidentemente di una prima idea poi scartata: il formato oblungo pare meno adatto a un sopracamino e potrebbe darsi che la prima richiesta non prevedesse quella collocazione ma si riferisse a un sopraporta, come nel caso dell’Alessandro e Taide. Successivamente all’uscita del mio libro, Ursula Fischer Pace (2002, pp. 95-96) rintracciò l’originale a Weimar (penna, inchiostro bruno e rialzi di biacca, mm 77 x 202, Weimar, Schlossmuseum, inv. KK 9559). Il foglio, perfettamente corrispondente a quello inciso da Rosaspina e senza dubbio autografo, presenta anch’esso i caratteri della grafica di quegli anni, come prova il confronto con lo studio per la Nascita del Battista. Maggior rilievo vi aveva la figura di Diana e anche qui compare il dragone (peraltro inteso dalla studiosa come riferimento alla nascita mitica di Alessandro) ma non l’aquila. Vedi anche, successivamente: U. Fischer Pace, in Italiani a Weimar 2008, pp. 48-49, cat. 11.
  • [12] Matita rossa con rialzi di biacca, su carta grigio-verde, mm 270 x 101, Windsor Castle, The Royal Library, inv. 5237.
  • [13] Bohn 2004, p. 205, cat. 85 (con bibliografia precedente completa).
  • [14] Matita rossa su carta bianca, mm 392 x 249, Parigi, Musée du Lovre, inv. 7378.
  • [15] Dato ad Annibale sin dal Seicento, quando si trovava in collezione Jabach a Parigi, una scritta successiva, probabilmente settecentesca, lo riferisce invece a Ludovico. Catherine Loisel lo elenca fra quelli in certo modo attribuibili a entrambi i cugini, continuando tuttavia a preferire nettamente il riferimento al più giovane (Loisel 2004a, pp. 214, 216, n. 432), come da ultimo ribadito in via informale a Takanashi, persino alla luce del dipinto ritrovato; per il quale dunque, secondo la studiosa, Ludovico sarebbe ricorso a un’idea elaborata dal cugino dieci anni prima? Come Annibale indubbio, primi anni Ottanta, figura ancora in: Roberston 2008, p. 209, fig. 3b, che lo pone in rapporto col problematico dipinto di genere, raffigurante Due bambini che giocano con un gatto, del Metropolitan Museum di New York, ultimamente accettato nel catalogo di Annibale ma dalla studiosa reputato a sua volta una copia (possibilità che in effetti, da sempre, non mi sento di escludere).
  • [16] Benati 1999, p. 80.
  • [17] Come notato da tempo, l’unico scambio patente fra i due cugini si riconosce, a date molto alte, circa il 1584, fra la posa del manigoldo intento a legare flagelli che compare in primo piano a destra nella Flagellazione di Ludovico conservata a Douai (Musée de la Chartreuse) e quella della figura dell’operaio che a sua volta compare nella scena V del fregio di Giasone, La costruzione della nave Argo, senz’altro di Annibale. Ma è un caso isolato e comunque contemporaneo, in un momento germinale della carriera di entrambi; inoltre non sappiamo chi in quel frangente abbia ripreso da chi.
  • [18] A tal proposito, la studiosa francese (Loisel 2004a, n. 432, pp. 214, 216) non escludeva la possibilità che il disegno, al tempo in cui si trovava presso Jabach, avesse subìto qualche ritocco in corrispondenza degli occhi delle figure - pratica tutt’altro che rara in quella celebrata raccolta. Il che spiegherebbe quel tanto di effettivamente più marcato e grasso che interessa appunto gli occhi delle due giovinette. La resistenza a trasferire questo studio all’attivo di Ludovico pur in presenza di un nesso così stringente è la stessa che in precedenza aveva indotto Christiansen (2000) a mantenere sebbene con cautela il riferimento al giovane cugino per uno studio di ubicazione ignota in evidente relazione compositiva con la Pietà Tanari da lui riscoperta (New York, Metropolitan Museum); studio, anche questo, senz’altro da restituire a Ludovico (Brogi 2001, pp. 106-107), cui del resto lo confermerebbero, pure in assenza del dipinto, il segno asciutto e la spoglia verità della forma e dell’idea.
  • [19] Le letture in chiave colta e letteraria, del tutto convincenti, di quei celebri dipinti, mi riferisco al Mangiafagioli della Galleria Colonna a Roma e alle due versioni della Macelleria (Oxford e Fort Worth), da intendersi non come mere tranches de vie, in specie la prima (vedi da ultimo l’accattivante saggio di S. Ebert-Schifferer 2011), nulla tolgono infatti al senso di questi disegni estemporanei e al ruolo da essi svolto nel rinnovamento della pittura a soggetto alto. Il dipinto giapponese spiega anche la genesi di una bella incisione attribuibile a Francesco Brizio, con la Maddalena penitente (Bartsch 83), nota in più esemplari (DeGrazia 1984a, p. 213, R29; e Brogi 1993, pp. 96-97, nota 45), che, ora possiamo dirlo, riprende dalla posa della moglie di Dario l’idea di fondo per quella della santa in meditazione. Ciò relega definitivamente al rango di brutto pastiche, e non più di copia da un possibile originale perduto, la tela di uguale soggetto passata anni fa presso Harari & Johns a Londra (Brogi 2001, vol. 1, p. 260, R24).

 


Pubblicato in Alessandro Brogi, Ludovico Carracci. Addenda, Bologna, Fondazione Federico Zeri, 2016, pp. 41-47.