archivio il giornale dell'arte

di Luca Violo

Breve ma veridica storia della notifica

I nostri affanni

La storia del patrimonio artistico italiano è il riflesso del millenario succedersi di complessi e frammentati eventi politici e sociali, che neppure l’Unità d’Italia con i suoi principi di salvaguardia dell’identità nazionale poté cambiare, rispetto a una consuetudine, tramandata per generazioni, che continuava a ritenere l’opera d’arte un privilegio piuttosto che un bene comune.
Quando Giuseppe Bottai, nel 1939, tradusse in legge la proposta di “Tutela delle cose d’interesse artistico e storico”, era sua intenzione arginare una emorragia che per ottant’anni aveva impreziosito le collezioni e i musei di mezzo mondo.
Un problema che oggi si pone con maggiore evidenza, conseguenza della progressiva rarefazione di opere d’arte che, per la loro unicità intrinseca, rappresentano la testimonianza paradigmatica di un artista, di un’epoca o di uno stile, e che un certo personale tecnico delle Soprintendenze, avvilito da un generale livellamento burocratico, attraverso un uso indiscriminato della notifica, difende secondo parametri che non sono più di valutazione specifica dell’opera, bensì di lettura uniformata che appiattisce ogni peculiarità.
È nello specifico l’articolo 2 della suddetta legge Bottai, a definire chiaramente gli ambiti della sua applicazione, ascritti a tutte quelle «cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere, siano state riconosciute di interesse particolarmente importante», e ancor di più (come precisa l’articolo 5) chiarisce che si «può procedere alla notifica delle collezioni o serie di oggetti, che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, rivestono come complesso un eccezionale interesse artistico o storico». Questi punti furono allora di fondamentale importanza rispetto ad un vuoto legislativo di tutela e di percezione del patrimonio, che aveva reso possibile un autentico saccheggio sia di capolavori assoluti sia di oggetti che, per la loro iconica singolarità, rappresentavano un tassello imprescindibile per una corretta ricognizione storico-artistica, ma che allo stato attuale l’inaridirsi dell’offerta e una rigorosa tutela legislativa hanno reso delle chimere del mercato.
Alla legge Bottai, rimasta in vigore fino al 1999, sono state aggiunte nel corso degli anni sostanziali migliorie, quali l’istituzione nel gennaio 1975, su proposta del Senatore Giovanni Spadolini, del Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, con il compito precipuo di affidare a tale organo la gestione del patrimonio culturale e dell’ambiente, per assicurarne la tutela come materia di interesse e di estrema rilevanza sul piano interno e nazionale (dicastero che nel 1998 diverrà il nuovo Ministero per i Beni e le Attività Culturali). Un ulteriore fondamentale definizione alla materia arriva poi in tempi più recenti con il “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, varato da Giuliano Urbani nel gennaio 2004, con il quale il dicastero trova una sua definitiva organicità.
Con l’adeguamento infine alle disposizioni dell’Unione Europea nel marzo 2008, e agli accordi internazionali (come la Convenzione Unesco del 1970) che connotano le opere in circolazione come ‘cose’ e non più semplici ‘merci’, e altresì con l’ausilio alle Soprintendenze di aggiornati data base di confronto per il rilascio in assoluta trasparenza degli attestati di libera circolazione all’estero, possiamo affermare che ad oggi vi sono tutti gli elementi per un responsabile e libero mercato delle opere d’arte.
Resta però, seppur larvata, una reciproca diffidenza, che Giuliano Briganti, sublime cantore della maniera italiana e arguto polemista, dalle prestigiose colonne de «L’Espresso», già trent’anni fa stigmatizzava con esemplari parole: «La demagogia, si sa, è frutto dell’ignoranza, esclude ogni rapporto con i problemi reali. In questo senso quegli strumenti di difesa del patrimonio che sono la notifica ed il divieto di esportazione possono diventare addirittura controproducenti se applicati indiscriminatamente» (“Meglio antiquari che ladri”, 28 agosto 1977).
Possiamo pertanto concludere che solo partendo da una condivisione di idee che vede al centro le reciproche competenze di tutela per le istituzioni e di promozione per l’antiquario, è possibile sviluppare un mercato scevro da sospetti e arguzie, dove conservazione e business possano alfine operare per il bene comune di un’identità storica e sociale, che nell’opera d’arte trova la sua incomparabile sintesi.

06.2010