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I fantasmi del passato

A proposito di un articolo del Professor Settis

Nella prima pagina del "Domenicale" de Il Sole 24 Ore del 19 Gennaio 2003, è apparso un articolo col titolo "Il bello dei Borboni" a firma di Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa e neo consigliere del Ministro Urbani. Nell'articolo viene svolta una accurata analisi delle leggi che, a partire da un decreto del senato romano del 1162 rivolto alla tutela della colonna Traiana, attraverso un analogo provvedimento senese del 1309, che intendeva la tutela delle opere d'arte al fine della "allegrezza del forestiero" e della "dignità dello Stato di Siena", in rapida successione esamina le norme con le quali gli Stati italiani provvedevano in qualche maniera alla salvaguardia delle loro opere d'arte per giungere agli editti borbonici del 1755 di Carlo VII, rinnovati da Ferdinando IV nel 1766 ed ampliati nel 1822, e a quelli del medesimo 1819 del Cardinale Pacca a Roma e di Maria Luisa di Borbone a Lucca. Come si vede gli Stati italiani cercavano di difendere i propri capolavori dal depauperamento, resi ancora più sensibili a causa delle spoliazioni napoleoniche che avevano gravemente impoverito i patrimoni culturali dei paesi assoggettati. L'Italia Unita provvedeva attraverso strumenti di tutela a contenere il fenomeno di uscita di opere d'arte con una legge predisposta dal 1872 ma approvata solo nel 1902. Si doveva giungere al 1939, con la famosa Legge Bottai, per avere uno strumento legislativo che riassumesse in maniera organica le varie normative precedenti; anche questa legge prendeva spunto dall'imminente situazione internazionale che si avviava verso la seconda guerra mondiale, dopo la quale fu necessario istituire uno speciale ufficio per il recupero delle opere d'arte illegalmente esportate dai nazisti, magistralmente diretto dal Ministro Plenipotenziario Rodolfo Siviero. Per inciso, vorremmo ricordare che, accanto alla benemerita opera di rientro di tanti capolavori così brutalmente asportati dal nostro paese, c'è stata anche una attività non meno benemerita di recupero di oggetti d'arte legalmente acquisiti durante i loro viaggi in Italia dai collezionisti stranieri che a partire dal `500 facevano del nostro paese la meta obbligatoria sia per l'erudizione personale dei giovani aristocratici, che per arricchire o per formare nuove collezioni d'arte: gli antiquari sono stati gli autori di questo straordinario flusso verso l'Italia di opere che hanno ritrovato la strada di casa. Il Professor Settis, nella sua brillante analisi, auspica che il patrimonio artistico che lo Stato italiano gestisce, si liberi da un "sistema di tutela ormai invecchiato negli ultimi decenni", con "nuovi investimenti e una profonda rifunzionalizzazione"; aggiungiamo che lo Stato, mentre si occupa in maniera ossessiva del collezionismo privato (che invece tutela e restaura in maniera esemplare le opere d'arte in suo possesso talvolta in accordo con le Sovrintendenze) non si preoccupa a sufficienza del patrimonio demaniale la cui tutela gli è affidata dalla Costituzione, assieme però al dovere di una corretta conservazione. In realtà succede che non esiste ancora una sufficiente catalogazione del Patrimonio culturale statale o degli Enti, cosicché nel caso di furti che, con tanta spiacevole frequenza, si abbattono sul nostro patrimonio artistico, viene moltiplicata la difficoltà che gli organi del recupero hanno per reperire una benché minima documentazione. Ne siamo testimoni con la frequente segnalazione di opere d'arte rubate (che spesso la Stampa riporta artatamente collegata a valori ridicolmente esagerati, a maggior ragione ingiustificati quando non esiste neppure una minima traccia fotografica), cosicché nella abituale rubrica che la Gazzetta Antiquaria dedica ai furti d'arte spesso non abbiamo materiale fotografico di qualità degno di essere riprodotto. Condividiamo quindi a pieno la preoccupazione del Professore Settis e sottoscriviamo a piena pagina che lo Stato italiano ha il dovere Costituzionale di "rendere funzionante la propria amministrazione, la più vasta `macchina' amministrativa del mondo dedicata alla tutela del patrimonio culturale". Infatti quando l'Unesco indica che il patrimonio artistico italiano è il più imponente al mondo si riferisce certamente al patrimonio di proprietà dello Stato e degli Enti Pubblici in generale e cioè, scendendo nello specifico, chiese, biblioteche, musei, collezioni storiche private ampiamente conosciute e notificate. Ed è di queste opere che lo Stato si deve preoccupare, per la loro tutela e conservazione, dedicando ad esse le energie e gli investimenti che non devono essere distratti per inseguire, in maniera esasperata, opere di proprietà privata. II mercato dell'arte è come un grande calmiere: riesce a mantenere un tono e una qualità grazie al collezionismo che nel tempo ha saputo formare; impedire questo logico passaggio dei beni artistici dal mercato al collezionismo significa danneggiare un delicato sistema che finirebbe col bloccare quelle donazioni che storicamente hanno formato il Patrimonio Pubblico. Del resto condividiamo ancora la affermazione del Professor Settis che anche nell'ipotesi di una devoluzione non debba essere attribuita alle Regioni una capacità legislativa indipendente nei confronti dei Beni Culturali, perché sarebbe una vera iattura correre il rischio di "sviluppare venti diverse concezione della tutela, una per ogni Regione italiana, spezzando il filo di una evoluzione storica secolare" creando i presupposti che "si vengano ad accentuare i disequilibri fra Nord e Sud peraltro già presenti". Converrà invece che lo Stato capisca la convenienza di una più intensa destinazione di investimenti al capitolo Beni Culturali dedicando, sia pure nelle difficoltà di ogni distribuzione preventiva della proprie risorse, una maggiore quantità del proprio bilancio di previsione perché "quello del nostro Patrimonio Culturale è un problema di civiltà, tale da provocare (sta accadendo) vaste convergenze culturali e politiche".
Vorremmo infine che tali risorse fossero anche destinate ad una più convinta e massiccia campagna di acquisizioni mirate da effettuare sul mercato, per colmare le lacune esistenti nelle pubbliche collezioni; non vorremmo invece che si preferisse stringere la borsa e cercare nel mercato il consueto capro espiatorio, con norme che ci riporterebbero a tempi oppressivi e assolutamente infruttuosi. Infatti non è difficile cogliere, nel rimescolamento voluto dal Ministero degli incarichi con l'affidamento alle Sovrintendenze ai Monumenti dello strumento della Notifica, la sensazione che ci sia un ritorno ad un uso ingiustificato di questo delicatissimo Istituto; ne avvertiamo con preoccupazione i rischi che ricaccerebbero nella diffidenza verso le Istituzioni chi opera nel mercato dell'arte, vanificando il lavoro di intelligenti funzionari che avevano con anni di paziente intesa creato i presupposti di un rapporto chiaro e leale, proficuo nell'interesse del collezionismo pubblico e privato. 

03.2003