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di Vittorio Sgarbi

Una lacrima sul viso

A Bassano dal 22 Novembre al 12 Aprile 2004

E dunque si dica innanzitutto che un museo, e in particolare un museo importante e ricco come quello civico di Bassano, non può per nessuna ragione essere smontato e, per molti mesi, reso inaccessibile. Né l’importante occasione, la mostra difficile e ambiziosa, con notevolissimi prestiti, di Canova scultore, pittore e disegnatore, giustifica una scelta così estrema e così radicale, alla quale non intendo come si sia accomodata la scrupolosa direttrice del museo. Si sarebbero potuti disporre all’accoglienza di tanti illustri ospiti Palazzo Sturm, o Palazzo Bonaguro, già in altre occasioni utilizzati o, ancor meglio, la grandiosa Villa Rezzonico, luogo canoviano per eccellenza. A distanza di un quarto di secolo, per rimarcare la solennità, e non perché siano mancati altri analoghi episodi, mi ritrovo a ripetere quello che scrissi nel 1978, su l’Unità, in occasione della mostra di Mario Cavalieri all’Accademia dei Concordi di Rovigo. Il pittore era da me amatissimo, il progetto dell’allestimento era dell’architetto Carlo Scarpa, innovativo e intelligente come sempre. Eppure l’insoddisfazione e il disappunto derivavano dalla scelta di chiudere la bella Pinacoteca con i dipinti di Bellini, Giorgione, Tiepolo, Longhi, per un tempo lungo, e in piena estate, ricoverati nel sottotetto del museo. Anche adesso a Bassano, mi chiedo dove sono i Magnasco, i Pennacchi, Jacopo Francesco e Leandro Dal Ponte, la Croce del Guariento e gli altri capolavori che rendono ancor più illustre la città. Certo, le steli della Cappella Mellerio arrivati da Palermo, il potente ritratto di Domenico Cimarosa della protomoteca capitolina, le teste di Paride e di Elena, dell’Ermitage, la Calliope di Montpellier, la Polimnia di Vienna e poi i trionfanti Amorino Alato, Amore Psiche e Danzatrice ancora dell’Ermitage, arrivano a Bassano per grande meraviglia e testimoniano un impegno e uno sforzo degni di una grande città, per la determinazione da Sergey a Androsov, Di Mario Guderzo e di Giuseppe Pavanello sostenuti dal Presidente della Fondazione Canova, Senatore Gian Pietro Favaro, e dal Sindaco di Bassano Gian Paolo Bizzotto. Ma ancora a loro, certamente sensibili e meritevoli di apprezzamento, chiedo: come è stato possibile, dopo lo smantellamento del museo, aver accolto tanti capolavori in un allestimento così indecente e umiliante? Sospendere quelle immacolate sculture grandi, e alla fine vive, come persone su basamenti luminosi al neon che Canova avrebbe guardato con orrore, e maledetto come invenzioni diaboliche e nemiche della sua armonia ideale. Se soltanto nel catalogo si osservasse su quale base, con uno zoccolo di porfido, posa l’Amorino Alato dell’Ermitage, si capirebbero l’empietà e la bestemmia di questo velleitario allestimento. Le sculture di Canova, sospese e illuminate dalla luce fredda del neon vengono restituite alla dimensione funeraria, cimiteriale, che aveva provocato l’interpretazione negativa di Roberto Longhi. Non scaldate nella politezza di un marmo che, per levità e trasparenza, compete con la carne, ma congelate come gessi o fantasmi, in corrispondenza con l’annuncio di una lastra luminosa, all’entrata della mostra, con teste schiacciate di manichini per caricatura di un’opera concettuale. E poi, scritte giganteggianti sui pavimenti e sulle pareti, e quadri appesi così in alto da volare, in una, forse involontaria mortificazione di ogni bellezza e di ogni eleganza. Canova ammirato e desiderato, certamente; ma anche Canova tradito. E se questo segna il limite grave della eccezionale impresa, che non è riuscita all’ambizioso museo Guggenheim di New York, anche la meravigliosa Gipsoteca di Possagno, architettura aulica che contiene i gessi lasciati nello studio dal Canova che pure ha l’incanto semplice di ciò che è sempre stata prima e dopo la riapertura del nuovo allestimento di Carlo Scarpa, merita quelche sottolineatura non perfettamente benevola. E, infatti incredibili risultano non l’adattamento di una nuova testa al mutilo gesso della Paolina Borghese, ma le immodalità sommarie dell’esecuzione al computer, che disanima la pur fredda materia. E ancor più improbabile e sproporzionato è il costo della discutibile operazione. In nessun modo se ne intendono la ragione e la giustificazione. Ma in quel luogo sublime, davanti al quale, in lontananza si proietta sclennissimo il Tempio aulico, come in una visione poussiniana, appare oggi importuno e non compiutamente riuscito l’intervento di Carlo Scarpa. Lo stesso architetto che riconosceva i limiti, e per il rapido decadimento dei materiali e per la modestia dell’invenzione, nella strettoia dello spazio rispetto alla spaziosa aula solenne della Gipsoteca. Tanto più se, usciti dal coro delle statue, si percorrano le misurate stanze della casa con le belle tele e i disegni del Canova, in un arredamento misurato e sobrio, ancora civilissimo nei dettagli, nel mobiglio, nelle tappezzerie, nei corrimano delle scale. E, all’esterno, un giardino, il piccolo orto, le siepi, parlano di una civiltà antica a cui il nostro tempo e anche il sussiegoso all’allestimento di Scarpa appaiono inadatti. Insomma, a Bassano come a Possagno sarebbe stato bene che si restituisse a Canova ciò che è di Canova e si adeguasse la sublime impresa dell’artista al gusto e alla sensibilità neoclassica, come così tutto sembra suggerire e consigliare; e come, invece purtroppo, non si è fatto. 

02.2004