notizia

di Carlo Orsi*

John Winter

Ciò che stupiva in lui era l’impulso diretto, istantaneo, con cui identificava la qualità, che per l’amante dell’arte, prima ancora che per il mercante, è la rarità dell’opera, l’immediata e folgorante unicità che fa di un ottimo lavoro un capolavoro.

Ciò che ho sempre invidiato a John Winter - che è mancato a 70 anni, pochi giorni prima di Natale, nella sua bella casa fuori Lucca - era l’occhio fulmineo con cui identificava l’oggetto di valore. Benché conoscesse i dipinti e i disegni, e ben al di là della sua raffinatissima expertise sui bronzi, nonché, ovviamente, della padronanza assoluta della porcellana, a cominciare da Doccia, ciò che stupiva in lui era l’impulso diretto, istantaneo, con cui identificava la qualità, che per l’amante dell’arte, prima ancora che per il mercante, è la rarità dell’opera, l’immediata e folgorante unicità, che, ben più della bellezza o talvolta della mera gradevolezza, fa di un ottimo lavoro un capolavoro. In questo approccio all’opera, John era egli stesso unico, nel nostro tempo, sicché è solo paragonandolo ad antiquari di altre generazioni (non posso, e me ne scuso, che pensare a mio padre, Sandro Orsi) che si trova un simile amore per l’arte a prescindere dall’aspetto commerciale. Il business, per John, non regnava sovrano. Ed è questo il lascito, importante seppur oneroso, del suo esempio.

Mi sono spesso chiesto, negli oltre trent’anni di amicizia, collaborazione, viaggi e affari che mi hanno legato a John, da dove gli venisse quell’impulso, che sembrava istintivo. E benché fosse ovvio che la sua conneisseurship non era scienza infusa, come un dono divino, ma veniva da intensa osservazione e lunga consuetudine, mi era difficile avere da lui, che con l’arguta ironia schermava il suo carattere difficile da leggere, qualcosa di più di uno sketch del suo passato. In più c’era l’amore per l’Italia e per la civiltà italiana, con la Toscana al suo centro, sicché, come Bernard Berenson, Winter faceva di Firenze il cratere dell’arte europea o perfino mondiale, e come Harold Acton, sintesi esemplare d’italianità e Britishness, non poteva che insediarsi, come in un habitat naturale, entro le sue mura. Ricordo ancora come la sua bella casa di piazza San Francesco di Paola, con la porta d’ingresso che s’apriva su un giardino segreto, fosse uno scrigno di pace, benessere, cultura. L’arte e l’Italia, quindi: solo ora che John non c’è più, purtroppo, ho avuto le notizie che la sua riservatezza gl’impedì sempre di darmi per rispondere alle domande sui grandi stimoli della sua cultura.

Gli Winter erano in verità tedeschi, che nell’800 emigrarono in Australia. Carl Winter, trasferitosi in Inghilterra nel 1928 per studiare ad Oxford, si unisce in matrimonio nel 1936 con Theodora Barlow, figlia di Sir Thomas e Lady Barlow, upper class di Manchester e Londra, agiati e colti collezionisti d’arte. John nasce nel marzo 1944 a Aylesbury, terzogenito dopo Robert e Caroline. Durante la guerra la madre Theodora è sfollata a Wendover con i figli dal blitz di Londra, il padre Carl è curatore al Victoria & Albert Museum. Ma già nel ’46 la famiglia va a Cambridge, dove Carl è diventato direttore del Fitzwilliam Museum: i piccoli Winter giocano nelle sale del museo come a casa loro. Carl s’accorge presto che il figlioletto ha occhio, e gli regala la sua raccolta di cartoline, che sarà la prima collezione, chiusa in una valigetta nascosta sotto il letto, di cui John diventerà curatore. La boarding school al Marlborough College, che John non amò mai, ma dove nuotando e giocando a rugby diventerà l’aitante ragazzone che resterà fino ai suoi ultimi anni, è solo un dovere. Ciò che importa è che Carl, ormai divorziato da Theodora ma sempre vicino alla famiglia, porti un paio di volte il figlio in vacanza con sé. E dove mai, se non in Italia?
Gli inglesi hanno il gap year, prima dell’università, per conoscere il mondo. John lo mette a frutto, va a Perugia per imparare davvero l’italiano e per girare, su uno scooter di seconda mano, tra Umbria e Toscana, alla scoperta di Giotto e Piero della Francesca. Quando in una curva lo scooter perde una ruota, si risveglia in ospedale, dove gli aggiustano le ossa ma gl’insegnano (vizio fatale, in una famiglia dal cuore geneticamente debole) a fumare. Ritornato a casa, è accettato a Cambridge, ovviamente al Trinity College, e studia economia e storia dell’arte sotto l’insegnamento di Michael Jaffe. Il 1966 è l’anno di svolta: si laurea con una tesi su Tintoretto, perde il padre Carl per un precoce infarto, sposa Alison Bruce, che gli darà un figlio, Alexander.

E qui c’è un’altra chiave per capire John Winter come poi l’abbiamo conosciuto. Non pensa di fare il curatore o il direttore di un museo, ma vuole diventare regista di cinema. Ci prova, subito a Roma, e partecipa alla produzione di “Reflections in a Golden Eye”, dove John Houston dirige Marlon Brando ed Elizabeth Taylor, e perfino appare in “The Shoes of the Fisherman”, con Anthony Quinn. Gli piace, possiamo dire con il senno di poi, la scena completa, l’opera con tutti i dettagli a posto, non il pezzo appena sbozzato. Ma nel cinema non sfonda e torna a Londra, dove fa un anno di apprendistato da Sotheby’s, sotto la guida del celebre Derek Shrub, in oggetti d’arte e bronzi: c’è una rara foto dove lo si vede, da banditore d’asta, aggiudicare un bronzo del Bernini. E gli vengono a frutto gli studi di economia quando, nel ’74, Sotheby’s lo manda a rimettere in sesto la dissestata (finanziariamente) sede di Firenze, a palazzo Capponi. Il suo successo, a trent’anni, gli spalancherà la vita futura: crea la Sotheby’s di Milano e poi si mette in proprio, nel 1984 con Jonathan Mennel e Jock Palmer, aprendo Trinity Fine Art, con sedi a Londra e Milano, direttrici Alexandra Toscano e Silvia Hunte. E’ finalmente un mercante d’arte, ma con il suo taglio tutto particolare.

Naturalmente, avendo lavorato per anni assieme e accanto a John, potrei raccontare le occasioni divertenti e quelle ansiose, le grandi mostre che abbiamo organizzato assieme (per anni, a New York), i viaggi di successo e i rari fallimenti, le sue simpatie e le sue idiosincrasie, come il vento di Chicago che gl’impedì per ore di uscire dalla porta girevole dell’Hotel W, a rischio di mancare un importante appuntamento. Potrei raccontare la sua vita privata, il secondo matrimonio, con Chiarella Ghini, o l’acquisto della villa fuori Lucca a Orbicciano. O infine potrei, in un elenco forse arido, elencare le opere che abbiamo avuto per le mani e collocato in grandi musei del mondo, dove l’arte italiana, spesso confinata in invisibili collezioni private straniere raccolte ai tempi del Grand Tour, ora splende sotto gli occhi di tutti. Ma come antiquario italiano, quindi sensibile al patrimonio culturale nazionale, voglio segnalare un grande merito di John, per il quale sarà sempre ricordato.

Nel 2003, grazie all’esperienza accumulata sulla porcellana Ginori, Winter ha potuto creare dal nulla l’Associazione Amici di Doccia, che produce ricerca sull’antica manifattura, organizza mostre, promuove la conoscenza della porcellana italiana. Noi italiani pensiamo che Ginori sia un nome universalmente noto, e certo è così, ma nel mondo l’arte di Doccia sconta la supremazia del nome Meissen, che la precedette di pochi anni e non la sopravanza in assoluta qualità, se non di Sèvres, Limoges  o altre successive manifatture. Che l’inglese John Winter, un mercante, abbia voluto creare un’istituzione per la cultura italiana, e che l’abbia presieduta fino alla morte, è insieme un merito e un monito a noi che restiamo. Anche perché l’amore per l’arte non esclude il business: quando John scovò in Inghilterra una delle grandi figure disperse di Doccia, un Paride pastore del 1745, splendido e unico, non tardò a trovare il compratore, e fare l’affare: oggi quel bianco splendente, alto come un bambino, sta a Vienna, ambasciatore della nostra arte, al Museo Liechtenstein.
Ecco perché ricordare John Winter non è solo un omaggio a un uomo assolutamente unico. Se mi guardo intorno e non vedo nessun altro come lui, spero tuttavia che la civiltà italiana abbia la forza di attrarre come un magnete altri studiosi e mercanti dal mondo.

 


*Carlo Orsi è presidente dell’Associazione Antiquari d’Italia