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Marco Riccòmini

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Per chi ama l’arte, spiccano due versioni del ritratto del Piccio del "Conte Manara con il suo servitore etiope" (1842)

Vi è mai capitato di sentirvi gli occhi addosso, ossia d’aver l’impressione che tutti vi guardino (senza però trovarvi su un Red Carpet)? A me capitò quando, appena ventenne, intrapresi un Journey Without Maps (viaggio senza mappe, dal titolo del racconto di Graham Greene del 1936) nel cuore dell’Africa nera; una “mosca bianca” tra un mare di “pecore nere” (o, se preferite, “cigni neri”, come dicono gli inglesi). Immagino che così si sentissero i neri in Europa e, in particolare, nell’Italia (priva ancora di colonie), tra il XVIo e il XIXo secolo, che è l’arco temporale preso in considerazione nella mostra a cura della Conservatoria del Mudec La voce delle ombre. Presenza africane nell’arte dell’Italia settentrionale (XVI-IXI secolo), fino al 18 settembre al Mudec di Milano (Museo delle Culture), catalogo Silvana Editoriale. Senza poter attingere ad un catalogo ricco come quello fiorentino, la mostra ammicca a Black Presence, ovvero “la presenza della cultura nera nell’arte europea, raccontata attraverso le opere delle Gallerie degli Uffizi”. Per chi ama l’arte, nella sezione Ombre senza voce, con dipinti dove appaiono servitori di colore a fianco dei loro (più loquaci) padroni, spiccano due versioni del ritratto del Piccio del Conte Manara con il suo servitore etiope (1842); peccato non poter vedervi attorno quell’“imbalsamato maculato tigre”, l’archibugio “sottratto al pascià di Belgrado” o il “coccodrillo imbalsamato”, che abbellivano la sua casa cremonese. Suggerirei, per aprire la mente, di munirvi del libro di Olivette Otele, African Europeans. An Untold History (2020).