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Marco Riccòmini

Fuga in Egitto

Più che una ‘Fuga’ quello in Egitto si potrebbe definire un ‘Ritorno’

Si potrebbe scegliere momento migliore di questo post natalizio per una ‘Fuga in Egitto’? No di certo. ‘Fuga’ non proprio come quella del Nuovo Testamento, anche perché, sebbene l’asino sia un ideale compagno di viaggio, per raggiungere le piramidi non partiremmo dalla Palestina ma, piuttosto, come evasione dall’ordinario. Ma ecco che, immancabilmente, appena si parla di ‘Egitto’ che c’è chi alza le spalle e sorride, lasciando intendere che non è il tipo da farsi abbindolare: «ma che fuga d’Egitto!». Eppure, proprio la locuzione «d’Egitto», tutta italiana (provate a vedere la faccia che fa l’amico d’oltremanica se, per negare o disapprovare quel che afferma, aggiungete alla sua frase «of Egypt»!), svela, al di là del politically scorrect, l’importanza che il Paese tagliato in due dal Nilo ebbe per i nostri connazionali del secolo scorso. Ancora oggi, girovagando per il Cairo, si percepisce il peso che gli architetti italiani hanno avuto nel plasmare l’aspetto della Capitale fino al secondo conflitto mondiale (quando, dopo arabi e greci, la nostra comunità costituiva il terzo gruppo etnico). La nostra lingua, della quale rimangono nel dialetto egiziano tracce numerose anche nel nostro mestiere («antica» è un pezzo d’antiquariato, «rubabikkiya» il robivecchi, ecc.) grazie alla Missione Archeologica Italiana (M.A.I.) condotta tra il 1903 e il 1920 resta, dopo quella francese, la più diffusa tra gli egittologi. Insomma, più che una ‘Fuga’ quello in Egitto, per chi si spingesse oltre il corridoio Covid-free di Sharm El Sheikh e Marsa Alam, si potrebbe definire un ‘Ritorno’.