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Leonardo Piccinini

Philippe Daverio. Contro le assurdità

Vennero gli anni bui dell’autarchia durante i quali l’Italia pensò d’essere sola, unica e isolata prima di implodere nella catastrofe della Seconda Guerra Mondiale. In quegli anni la penisola, povera e agricola quanto intimamente arrogante, pose per la prima volta i limiti alla circolazione del pensiero e delle opere. La necessità della tutela, assolutamente legittima nella sua iniziale impostazione dei primi anni del Novecento, si trasformò in una norma di isolamento negli anni più duri del regime, in quel 1939 quando il ministro Bottai, che ne fece vanto e gloria, chiuse le frontiere al dialogo. Negli anni successivi, per nostra fortuna culturale e economica, la faccenda cambiò radicalmente. L’Italia tornò ad essere attrice prima, protagonista poi, d’un nuovo afflato che portava a germogliare i semi d’un pensiero comunitario nel quale oggi viviamo e dibattiamo. La norma di tutela rimase purtroppo quella di prima. Il Paese si fece ricco e divenne, nel campo delle arti, potenzialmente più acquirente che venditore. La norma di tutela rimase ancora quella di prima e si fece freno ad ogni ipotesi di competizione, di scambio. La legge inadatta si trasforma quasi sempre in legge iniqua. La legge iniqua si trasforma per automatismo in un freno alla civiltà”.

Così scriveva, sulla pagina AAI del Giornale dell’Arte, Philippe Daverio nella primavera 2014. Da profondo conoscitore del mercato d’arte antica (per averlo frequentato da mercante e poi appassionato acquirente), da europeista autentico, trovava assurdi certi vincoli, certi lacci burocratici d’antan. Fu così che l’anno successivo, invitato alla Biennale di Firenze alla presentazione del progetto di riforma del mercato d’arte in Italia Apollo 2, dichiarò la sua totale adesione e partecipò alla tavola rotonda insieme a Carlo Orsi, Annamaria Gambuzzi, Anna Somers Cocks e Giuseppe Calabi. “In un mondo in cui si spostano flussi impressionanti di migranti è assurdo non riuscire a far viaggiare le opere d'arte” chiosò con la sua solita ironia.

La sua battaglia era volta a salvaguardare i contesti, a difendere i monumenti in pericolo, lontano anni luce dagli ipocriti allarmismi dei cosiddetti “sovranisti dell’arte”, quelli che vanno in tilt oltre Bardonecchia. Era quindi prevedibile che due anni fa, all’invocazione di chi scrive e di Jean Blanchaert per difendere l’onore “della povera Giulia Maria [Crespi], trattata come una ladra, in un assalto tra il reazionario e l’olio di ricino”, rispondesse con vigore sui giornali, sottolineando il lecito desiderio di chi, avendo comprato un’opera di Burri decenni orsono, desiderava rivenderla. Semplice. Puro buonsenso. Caro Philippe, ci mancherai.