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Marco Riccòmini

Eisenwolf

Qualcuno ha paura dei lupi di ferro?

Era una mattina fresca, sul finire del Lockdown. Mi attardavo col caffè quando, d’un tratto, un urlo straziante scosse la valle e una ghiandaia si alzò in volo scuotendo le frasche d’un ciliegio. Seguì un secondo grido, pari al primo ma più intenso. Incuriosito, mi diressi nella direzione da cui proveniva, attraverso il campo in salita di fronte a casa, dove l’erba mi arrivava al petto. Giunsi senza accorgermene a un passo dal suo muso e vidi che stringeva tra i denti il collo di un giovane capriolo. Esitò qualche istante, guardandomi negli occhi, poi abbandonò la preda scomparendo nel bosco (sarebbe tornato quella notte a riprendersela, accertai la mattina seguente). È stato il mio primo incontro col lupo di cui avevo visto le impronte nei mesi precedenti, nel fango lasciato al ritirarsi della neve, assieme a qualche macabra traccia dei suoi banchetti. Ne ho visti altri, in branco, a Firenze, alle spalle del Ferdinando de’ Medici del Giambologna, tra le fontane del Tacca, già ‘avvistati’ immancabilmente sui social, tra volti sorridenti e toccate di gomito (questa tra qualche anno andrà spiegata a chi non c’era). È politically incorrect evocare l’espressione colorita di Paolo Villaggio nei panni di Fantozzi a proposito de La corazzata Potëmkin, senza tema di essere tacciati di non capire l’arte contemporanea? Avevate capito che si trattava di un’operazione commerciale col pretesto di celebrare l’anniversario delle relazioni diplomatiche tra il nostro e un Paese che opprime gli artisti non allineati? Chiedete a Ai Weiwei. Qualcuno ha paura dei lupi di ferro (Eisenwolf)?