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di Alessio Altichieri

Beyond Caravaggio

Caravaggio, violento, rissoso e perennemente fuggiasco, non ebbe mai una cerchia, tantomeno una scuola, ma solo amici, amanti, assistenti.

La mostra “Beyond Caravaggio” alla National Gallery, che sarà il magnete culturale (assieme all’”Abstract Expressionism” alla Royal Academy)  del turismo di Natale a Londra, offre una gradita conferma e introduce a riflettere su un grande mistero, cioè l’inspiegabile eclisse di Caravaggio dal gusto europeo, durata più di tre secoli, che ora questa rassegna prova a rischiarare, separando il grano di Michelangelo Merisi dal loglio dei caravaggeschi, dei “naturalisti”, degli imitatori (Caravaggio, violento, rissoso e perennemente fuggiasco, non ebbe mai una cerchia, tantomeno una scuola, ma solo amici, amanti, assistenti – a volte, tutt’e tre assieme).

La rassicurazione è, diciamo così, politica: pure nell’ora della massima instabilità, quella della temeraria Brexit, Londra garantisce certezze. Eccentrica e imprevedibile, l’Inghilterra è e resta una superpotenza culturale, con università e case editrici straordinarie, una ricerca scientifica e umanistica di livello mondiale, nonché musei superlativi, che godono di due ricchezze: una, evidente, è il patrimonio accumulato al tempo dell’impero e della rivoluzione industriale, l’altra, meno ovvia, è l’umiltà a cui sono tenuti i curatori di tale patrimonio, costretti dal dovere civico di spiegare l’arte del mondo (cioè forestiera) ai sudditi che non fanno il “grand tour” e non vanno oltre Dover. Ecco allora qui, come in molte altre mostre, il percorso chiaro, le didascalie essenziali ed esaustive, il piacere di uscire avendo imparato qualcosa, non solo ammirato bei quadri, come spesso accade in Italia, a dispetto del “latinorum” di curatori che fanno sfoggio di se stessi.


"Ecco allora qui, come in molte altre mostre, il percorso chiaro, le didascalie essenziali ed esaustive, il piacere di uscire avendo imparato qualcosa, non solo ammirato bei quadri, come spesso accade in Italia..."


In diciott’anni di turbolenta attività, Caravaggio dipinse circa novanta quadri. Così, anche grazie al gioco  continuo di nuove e discusse attribuzioni, che sono cronaca di questi giorni, non manca mai una mostra al mondo che non abbia la parola Caravaggio nel titolo. Sicché è un merito che la curatrice Letizia Treves, sommando ai tre Caravaggio e ai caravaggeschi della National Gallery quelli dalle isole britanniche (la mostra andrà poi a Dublino ed Edimburgo) e dal mondo anglosassone, sia riuscita a mostrare alcune assodate verità: primo, Merisi non fu solo l’inventore del chiaroscuro, come erroneamente viene chiamato il gioco di ombre e di luci sferzanti che poi i seguaci imitarono a fatica (per esempio lui, Caravaggio, non dipinse mai una candela nella tela, per creare facili effetti); e, secondo, la sua rivoluzione consistette nel ritrarre scene bibliche in abiti della sua epoca e con personaggi che erano persone vere, prese dalla vita. Scene mitiche, leggendarie, bibliche, ma ambientate nella suburra che era al suo tempo Roma – e l’Italia.

Non c’è opera che meglio dimostri ciò della “Cattura di Cristo nell’orto”, il quadro più importante della mostra. Una grande tela (133 per 169 cm), violenta, teatrale, pregna e soffocante: cinque personaggi, oltre a Cristo e a Giuda che l’ha appena baciato, cioè tre guardie in lucenti armature rinascimentali, un testimone che urla il tradimento, un giovane che regge una lucerna e s’allunga per vedere la scena. Angoscia e claustrofobia tolgono il respiro, la pittura è di qualità straordinaria, i volti sono istantanee di cronaca nera. Come abbiano potuto i gesuiti della comunità di Dublino, nel cui refettorio era appeso, consumare i pasti per tre o quattro generazioni sotto un quadro di tale qualità, benché sporco e annerito, accettando l’idea che fosse un’opera minore di Gerard van Honthorst (il “Gherardo delle Notti”), finché non fu riscoperto agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, è un quesito che meriterebbe un romanzo. Tenuto anche conto, come dettaglio sconcertante, che il giovane con la lanterna è Caravaggio stesso, in autoritratto.


"Angoscia e claustrofobia tolgono il respiro, la pittura è di qualità straordinaria, i volti sono istantanee di cronaca nera."


Qui sta infatti il mistero. Tra il 1600, quando in San Luigi dei Francesi si aprì al pubblico la cappella Contarelli, dove aveva dipinto le due sensazionali scene dalla vita di san Matteo, fino al famoso fattaccio del 1606, quando uccise Ranuccio Tomassoni e dovette fuggire da Roma per evitare l’arresto, Caravaggio esercitò un’influenza straripante sui pittori dell’epoca, che scendevano dall’Europa del Nord per vedere la nuova meraviglia. Questa sua capacità di “rappresentare un soggetto ben conosciuto in un modo completamente nuovo, radicato nel suo mondo” (Treves) gli procurò le lodi più accese, e altrettante invidie dei colleghi. In più, la Chiesa ben gradiva questa nuova forma d’espressione, così potente sull’immaginazione popolare. Accanto alla “Cattura di Cristo”, in mostra, sta la “Cena a Emmaus” (1601) della National Gallery, dove Cristo sembra accolto in una taverna, di ieri ma forse anche di oggi.

Ovvio quindi che, malgrado il peregrinare tra Napoli, la Sicilia e Malta, e pure dopo la morte a Port’Ercole nel 1610, Caravaggio godesse di fama indiscussa, e meritata. Eppure, a metà del secolo era già dimenticato. Il gusto era cambiato, il classicismo dei Carracci aveva ripreso il sopravvento sul naturalismo. E pure coloro che avevano subito l’influsso di Caravaggio (Guido Reni, Orazio Gentileschi) presero altre vie, proprie. Forse una pittura così anticonformista era troppo personale per essere imitata da altri, ma ciò non spiega l’oblio del pittore stesso. E tuttavia, su Caravaggio, silenzio. Un secolo, due secoli, s’arriva all’ottocento, e John Ruskin, massimo  esponente del gusto vittoriano, allora egemone, riversa su Merisi nuove accuse: con “volgarità, monotonia e depravazione”, dice, Caravaggio cerca, anziché la bellezza, “l’orrore e la bruttezza, la sconcezza del peccato”. E assieme a Roger Fry, di una generazione più giovane, trova per Caravaggio un aggettivo indicatore, “ruffiano”. Evidentemente quei moralisti castigati subivano la suggestione, ma ne rifuggivano spaventati. Ci sarebbe materia, qui, per un’analisi psicologica postuma.


"...bisogna arrivare al novecento, e tornare in Italia, perché Caravaggio ritrovi il suo posto nella storia dell’arte. Il merito va a Roberto Longhi e alla mostra che organizzò nel 1951 a Milano."


Fatto sta che bisogna arrivare al novecento, e tornare in Italia, perché Caravaggio ritrovi il suo posto nella storia dell’arte. Il merito va a Roberto Longhi e alla mostra che organizzò nel 1951 a Milano. Longhi, influenzato dal rifiuto modernista della classicità, predilige opere “brutalmente oneste e impulsive” come quelle dei primitivisti del trecento, ma anche il Caravaggio del “Bambino morso da un ramarro”, con la sua smorfia spaventata. E’ un sipario che si squarcia, Merisi torna al suo posto nella storia dell’arte. Ma, per restare all’Inghilterra, i successori di Ruskin sono ancora diffidenti: ci vorrà solo l’insistenza di Denis Mahon, riscopritore del barocco e del Guercino, perché la National Gallery compri, nel 1970, “Salomé riceve la testa di San Giovanni Battista” e poi proprio il “Bambino morso”, nel 1986.

Finiamo qui. L’ultima sala della mostra è dominata dal monumentale “San Giovanni Battista nel deserto”, un ragazzo così bello che sembra dipinto da Ingres. Quel quadro, commissionato dal banchiere genovese Ottavio Costa nel 1604, era già arrivato in Inghilterra, ma rifiutato da ogni galleria pubblica, compresa la National Gallery, fu venduto nel 1952 in America, al museo di Kansas City. Ed ha dovuto riattraversare l’oceano per tornare in Europa a ricordarci come il pregiudizio su Caravaggio abbia danneggiato, più che il pittore, noi stessi.


“Beyond Caravaggio”, The National Gallery, Trafalgar Square, Londra, fino al 15 gennaio 2017. Sponsor: Credit Suisse.