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di Roberto Valeriani

Le diverse maniere di acquistare un camino

Quando Roma divenne il centro di produzione di camini ambiti dall’aristocrazia europea.

Al tramonto della propria esistenza, Anne Marie de la Tremouille, meglio nota come la Princesse des Ursins, asseriva di essersi rovinata per sempre la salute durante i lunghi anni passati a Madrid e a Roma dove, stando a lei, si preferiva scaldare le stanze coi bracieri che coi camini.  Era appena tornata nell’Urbe dopo le peripezie di una vita avventurosa e risiedeva in un palazzo ai Santi Apostoli il cui precedente occupante era stato il molesto ottuagenario Cardinal d’Arquien , padre di Casimira Sobieski. Venne detto allora alla Orsini che il porporato da bravo francese aveva fatto installare dei camini ma alla sua morte questi erano stati murati. Era il 1718 e da altre fonti sembra confermata la voce che nei grandi palazzi romani d’inverno si gelasse dal freddo eccettuate poche stanze, rese passabilmente tiepide da smisurati “foconi” pieni di brace fumigante. Questa ostilità romana nei confronti di un apparato decorativo -oltreché utile- cessò del tutto in pieno Settecento quando, per una sorta di nemesi, Roma divenne allora il centro di produzione di camini ambiti dall’aristocrazia europea mentre i romani stessi si davano da fare per allinearsi alla moda. Lanciata sul mercato nell’ultimo sincero afflato della sua produzione artistica, Roma pullulò allora di officine che preparavano elegantissimi manufatti scultorei all’antica. Gran parte del merito spettava al Piranesi che con Le diverse maniere d’adornare i cammini del 1769 aveva creato una moda o almeno fatto credere a gran parte dell’Europa che il centro del gusto fosse proprio in una Roma popolata di statue e colonne ma anche degli improbabili personaggi egizi che comparivano sulle sue incisioni.


"Si narra che un grande scultore inglese, Joseph Nollekens, a Roma per una decina d’anni fino al 1760, fosse assai bravo a fabbricare pezzi di torsi che spacciava per antichi dopo averli immersi in un opportuno bagno di tè."


A differenza di quelle mirabolanti creazioni il suo camino a Burghley House, per il conte di Exeter, è abbastanza misurato, con un bel contrasto fra il fondo candido e i rilevi in rosso antico che l’autore asseriva di aver trovato a Villa Adriana. Uno di questi, però, ha un gemello, nella stessa materia, a Woburn Abbey e questo getta qualche ombra sull’antichità di certi manufatti dell’epoca che a volte, a Roma, venivano replicati con disinvoltura o inventati con destrezza. Si narra che un grande scultore inglese, Joseph Nollekens, a Roma per una decina d’anni fino al 1760, fosse assai bravo a fabbricare pezzi di torsi che spacciava per antichi dopo averli immersi in un opportuno bagno di tè. A scriverlo è il suo biografo e intimo frequentatore J.T. Smith, autore di due volumi annoverabili fra i classici del rancore (se mai si compilasse una collana letteraria sul soggetto, che vanterebbe non pochi capolavori a partire dalle velenose Ἀνέκδοτα di Procopio di Cesarea). Nollekens aveva promesso una cospicua eredità a Smith, figlio di un collega e suo assiduo accompagnatore, ma alla morte dello scultore il malcapitato non vide neanche uno scellino. Di qui l’accurato panegirico dello Smith sui meriti artistici del defunto, intonato col contrappunto di una malignità resa ancor più spietata dall’apparente tono distaccato del narratore. Nollekens ne esce fuori come un gigante dell’arte e della taccagneria, non solo falsificatore di reperti di scavo ma contrabbandiere di pizzi, guanti e merletti italiani, che nascondeva nei propri gessi spediti in patria per non pagare le tasse doganali e incrementare gli introiti. Quelle pagine vendicative contengono però numerose notizie su artisti e committenti diversi, compreso il più vorace acquirente di camini romani mai esistito,  Frederick Augustus Hervey, Vescovo di Derry e Conte di Bristol.

Il prelato deteneva una fortuna notevole, dovuta al doppio titolo, mentre la passione per l’arte unita ad un carattere impossibile gli consentirono di far sperare e disperare gli artefici che coinvolse nei progetti delle sue dimore. Amava  far case: ne possedette almeno due in Irlanda, Ballyscullion e Downhill, ma lasciò incompleto il suo progetto più amato, Ickworth, nel Suffolk. Tutte quelle dimore necessitavano non solo di quadri, sculture e antichità, che Bristol acquistò con larghezza durante i suoi lunghi soggiorni italiani, ma anche di camini.


"Fare camini per gli inglesi a Roma nel secondo Settecento non era comunque impresa semplice. Non c’era verso di mettere in pratica le fantasticherie di Piranesi: la maggior parte di esse doveva sembrare un po’ troppo bislacca per lo spirito anglosassone."


Fare camini per gli inglesi a Roma nel secondo Settecento non era comunque impresa semplice. Non c’era verso di mettere in pratica le fantasticherie di Piranesi: la maggior parte di esse doveva sembrare un po’ troppo bislacca per lo spirito anglosassone. Quel che piaceva erano le materie, la perizia degli artigiani. Stando a Charles Heathcote Tatham, l’architetto inglese che in quegli anni si stava irrobustendo le ossa a Roma, nel 1795 il principe di Galles aveva acquistato in città “a mosaic chimney piece, worked on by an English sculptor at Rome of the name of Deare…The mosaic is inimitable, and comes so near to painting that is literally a deception” annotando che gli ornamenti scolpiti erano belli, perchè all’antica ma l’architettura, opera di George Hadfield, meno. Un architetto inglese, Hadfield, uno scultore di Liverpool, John Deare, e un anonimo mosaicista avevano dunque combinato, a Roma, i propri talenti per creare una sorta di ibrido impareggiabile.

Deare ebbe a che fare col Conte Vescovo più volte Era un ragazzo di belle speranze arrivato  a Roma con una pensione della Royal Academy nel 1785 dove rimase fino alla morte precoce nel 1798. Fu avvicinato da Bristol ma rifiutò l’ impiego fisso che questi gli proponeva. Poco dopo si impegnò a fare un camino e altre cose per il prelato all’astronomica somma di 2.700 sterline. Bristol era noto per questo tipo di prodigalità incontrollata salvo poi cambiare idea, disdire commissioni o saldare i propri conti con ritardo. Il suo era un carattere bizzarro (come quello di Deare, peraltro, che fu imprigionato dalla giustizia papale per la sua appartenenza ad una setta di pii che pregavano devotamente nudi), facile alla risata e alla battuta salace soprattutto diretta alle altezze reali. Fu caustico con Ferdinando di Borbone e implacabile col suo stesso sovrano. A giudicare dalle lettere di Tatham il vino aveva la sua parte: incaricato del progetto di Ickworth l’ architetto trovò il proprio committente overwelmed   with his claret e decise di rinunciare alla proposta.

La commessa passò di mano ancora due volte e infine Ickworth venne alla luce col contributo di Mario Asprucci (figlio del più famoso Antonio che aveva rifatto gli interni di Villa Borghese negli anni Ottanta) ma il proprietario non visse tanto da vederla ultimata. La casa contiene alcuni bei camini romani, fra cui uno con placche in pietre dure separate da una greca in mosaico minuto e un altro con doppie colonne ai lati fra le quali sono posti due gruppi scultorei da originali antichi, Bacco e Arianna, Amore e Psiche, quasi identico ad uno approntato da Carlo Albacini e oggi nel Palazzo del Quirinale. Due camini provenienti da Ickworth andarono all’asta anni fa, uno con mosaici raffiguranti animali, il secondo con placche di pietre dure che formano figure geometriche e festoni, in un gusto che ricorda certi disegni schizzati dal vecchio Giuseppe Valadier in un taccuino in cui si confondono progetti e memorie.


"...in una navata spoglia, coperta da capriate si vede ancora un bel camino con inserti in mosaico e tre placche in rosso antico in una delle quali è la celebre raffigurazione della Venditrice di amorini, un soggetto antico e reinventato un’infinità di volte."


Le altre due case del vescovo, Downhill e Ballyscullion, hanno subito le ingiurie degli uomini, del fuoco e del destino e così, ogni tanto, riemerge un camino  che si dice provenire dalle raccolte del conte prelato. Hervey si spense a Roma nel 1803, sopraffatto dalle stravaganze ma anche dal dolore di aver visto i propri acquisti romani sequestrati dai francesi. I beni andarono all’incanto tre anni dopo e qualcosa fu comprato dall’erede e installato nelle varie residenze di famiglia. L’asta contò 534 lotti fra statue antiche e moderne, piani di tavoli, quadri, rocchi marmorei, pavimenti di mosaico e infine quattordici camini finiti, più altri sei incompleti, di cui il catalogo menziona  gli autori. Fra quelli compiuti se ne menziona uno “con meandro ornato di pietre dure” che può essere quello oggi nella drawing room di Ickworth (era opera di Antonio Blasi, uno scalpellino noto all’epoca) e un altro “ornato di mosaico con animali” (di tal Rinaldini) forse identificabile con l’ esemplare proveniente dalla stessa casa, citato prima. Altri ancora furono recuperati da Downhill, ridotta oggi ad una poetica e inquietante rovina che sembra la quinta silenziosa di un racconto di Walter de la Mare. Esistono delle vecchie foto che ancora mostrano i camini così com’erano collocati fra quelle mura, desolate ai primi del Novecento: in una navata spoglia, coperta da capriate si vede ancora un bel camino con inserti in mosaico e tre placche in rosso antico in una delle quali è la celebre raffigurazione della Venditrice di amorini, un soggetto antico e reinventato un’infinità di volte. Quell’opera romana andò all’asta anni fa, assieme ad un suo compagno fregiato di rilievi candidi che raffiguravano girali, protomi di eroti alati e tutte quelle complicate variazioni neoclassiche che originavano dalla immaginazione piranesiana ma erano stati cucinate in maniera nuova per solleticare il palato sensibile degli anglofoni. Il calore sprigionato da quelle eleganti architetture romane, scintillanti di mosaici e custodite da divinità in esilio, non era più necessario alla dimora, le cui  finestre ora inquadrano il cielo come palpebre vuote.