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di Carlo Milano

Frieze Masters: a forza di stare insieme si incomincia a piacersi?

L’impressione è che il matrimonio tra antico e moderno, nato probabilmente per convenienza, incominci a essere riscaldato da qualche gesto d’affetto.

Si è chiusa domenica sera nell’angolo Nord di Regent’s Park Frieze Masters, la fiera nata dalla costola della macchina inarrestabile di Frieze, e chiude probabilmente con gli organizzatori soddisfatti, i visitatori contenti, e gli espositori chissà.
Sempre bella la presentazione, con ampi spazi, ariosi, e da quest’anno con più libertà per i mercanti nell’allestimento degli stand: non più tutti col pavimento grigio e i muri bianchi, ma concessioni a colori e strutture aggiuntive alle canoniche tre pareti.
È sempre bello il contenuto, con una selezione di gallerie europee e americane che rappresentano il meglio del mercato dell’arte dall’epoca classica al Novecento, passando per l’arte tribale e quella orientale.

Un grande successo di pubblico, con folla alla giornata di vernissage (un martedì. In una metropoli come Londra non c’è bisogno di aprire al venerdì per fare il pienone), e un continuo flusso di pubblico durante le altre giornate. Apprezzata, dai visitatori e dagli espositori, la durata breve della fiera (sei giorni in tutto), sul modello di Frieze e di molte altre esposizioni di arte contemporanea. Si tratta di un formato al quale il pubblico della contemporanea è abituato (non gli antiquari, sottoposti di solito a maratone da dieci giorni tipo Maastricht), e che implica non solo rapidità da parte dei clienti, che ad essa sono abituati, ma anche un approccio diverso da parte degli espositori.


Come negli altri anni, è chiarissima la preponderanza del Novecento, ma rispetto al passato abbiamo visto qualche esempio di arti decorative in più.


Come negli altri anni, è chiarissima la preponderanza del Novecento, ma rispetto al passato abbiamo visto qualche esempio di arti decorative in più. In questo senso, merita una menzione l’italo-britannico Justin Raccanello, debuttante alla mostra, che si è presentato con una ricca varietà di maioliche istoriate rinascimentali italiane, tra cui un preziosissimo piatto di Xanto.

Trovandosi in una fiera che comunque attira soprattutto una clientela diversa da quella di Maastricht o di Firenze, i mercanti di arte antica hanno fatto essenzialmente due scelte.
La maggior parte, spesso ripetendo felici esperimenti da loro già fatti in precedenza, hanno disegnato stand eclettici, presentando antico e moderno affiancati. È questa la strada, ad esempio, di Robilant + Voena, o di Moretti, che ha condiviso il proprio spazio con uno dei giganti del mercato contemporaneo, Hauser & Wirth.
Altri invece si sono proposti con un volto più classico, da antiquari di tradizione. Così hanno fatto Cesare Lampronti (ottima la sua idea di portare in fiera il modernissimo Giove e Antiope di Francesco Pozzi) e Giovanni Sarti, con uno stand che permetteva, leggendolo da sinistra a destra, di fare un rapido excursus nella pittura italiana dal Trecento al Seicento.

Una “terza via” l’hanno suggerita Riccardo Bacarelli e Bruno Botticelli. Fieri d’essere antiquari hanno esposto solo opere antiche, anche con soggetti non appetibili a tutti (come il bellissimo Crocifisso algardiano posto al centro dello stand), ma in un contesto moderno: stand aperto, bianco, essenziale. Hanno avuto (non solo loro, sia chiaro) anche un buon successo commerciale, e soprattutto con una clientela nuova.


Del resto, anche soltanto camminando per i corridoi si capiva che c’erano numerosi clienti che normalmente non frequentano le fiere antiquarie, e si notavano anche le assenze di molti dei tradizionali protagonisti delle trattative nelle campagne nebbiose del Limburgo o sulle sponde del verde Arno.


Questo tema della clientela nuova lo si è colto in molte conversazioni. Del resto, anche soltanto camminando per i corridoi si capiva che c’erano numerosi clienti che normalmente non frequentano le fiere antiquarie, e si notavano anche le assenze di molti dei tradizionali protagonisti delle trattative nelle campagne nebbiose del Limburgo o sulle sponde del verde Arno.
Una clientela diversa da quella tradizionale, numericamente ancora sparuta, mossa da passioni e curiosità inconsuete (“Ti fanno delle domande completamente diverse dal solito!” si è sfogato un espositore) pone anche dei problemi di approccio da parte dei mercanti, da affrontare con esperimenti, fino a trovare la risposta giusta. Certo, questi sono esperimenti costosi, da svariate decine di migliaia di Euro.

L’impressione è che il matrimonio tra antico e moderno, nato probabilmente per convenienza (quella di Frieze di poter vendere qualche decina di stand in più e quella degli antiquari di cercare nuovi sbocchi), incominci a essere riscaldato da qualche gesto d’affetto. Son sorrisi e carezze, niente scoppi di passione per ora. Vedremo.

 



Nota a margine di Frieze.

Aveva visto bene Vollero, il gallerista inventato (?) da Fruttero & Lucentini in La donna della domenica (1972)?

“…ormai tutti convertiti alla cosiddetta “arte moderna”, cioe’ al bidonismo internazionale, e si mettevano in casa (pagandoli milioni!) tubi di cemento e latte di benzina, sedie rotte e rubinetti arrugginiti, fascine, stracci per la polvere e biberon verniciati di giallo. Ci sarebbe stato da ridere, se non ci fosse stato da piangere. Perfino i dirigenti Fiat, che ancora l’ anno scorso non concepivano una parete di salone senza una battaglia seicentesca (140 x 75), che per tre o quattro lustri avevano sopportato impassibili lo scherno dei dirigenti Olivetti – quei pionieri della carabattola snob – perfino i dirigenti Fiat cominciavano a dar segni di tentennamento.  Venivano, guardavano, s’ informavano; ma le coeur n’y était plus, si vedeva bene”.