di Francesca Candi
Oltre a Bologna, è Roma il luogo dove, nella prima metà del Seicento, fu realizzata la maggior quantità di traduzioni da Guido Reni. La fortuna delle opere del pittore in questo contesto non fu influenzata da lui, ma ebbe origine da iniziative del collezionismo, del mercato e degli intagliatori stessi. Gli incisori che a queste date trassero stampe dal pittore furono soprattutto stranieri, francesi in particolare e nordici, arrivati in Italia per aggiornare il proprio stile a contatto con la grande maniera italiana e, forti di questa esperienza, assicurarsi un ruolo nel panorama artistico del paese d’origine[1]. Spesso attivi anche come stampatori, dunque autonomi nella scelta delle stampe da realizzare e divulgare, assecondarono il gusto diffuso nel contesto culturale d’appartenenza.
"Spesso attivi anche come stampatori, dunque autonomi nella scelta delle stampe da realizzare e divulgare, assecondarono il gusto diffuso nel contesto culturale d’appartenenza."
L’olandese Nicolaes Lastman e il fiammingo Hieronymus Wierix, ad esempio, incisero a date molto precoci la Crocifissione di san Pietro realizzata da Guido per la chiesa di San Paolo alle Tre Fontane, oggi ai Musei Vaticani. Di Nicolaes che, tra il 1605 e il 1607, durante il suo soggiorno a Roma, eseguì e stampò il bulino d’après questo quadro poco è noto, ma di certo condivise con il fratello minore, il più noto Pieter Lastman, una profonda attrazione per i modi di Caravaggio e Adam Elsheimer[2]; negli stessi anni anche Hieronymus ne Wierix ne incise la propria versione[3] diffusa poi da Hendrik van Schoel (1565 ca.-1622), stampatore originario di Anversa ma attivo a Roma (fig. 1). Sensibili per formazione alle ricerche dell’incipiente naturalismo e, al contempo, intenzionati a cavalcare lo straordinario successo riscosso dal Merisi tra artisti, intendenti e collezionisti delle proprie nazioni di origine[4], essi tradussero il più caravaggesco dei dipinti di Reni, enfatizzando il trattamento fortemente chiaroscurale del soggetto qui adottato dal pittore e in seguito deprecato da Malvasia, Passeri e Bellori[5].
Un gusto diverso mosse invece i numerosi intagliatori francesi presenti a Roma nella prima metà del secolo, influenzati, nelle loro predilezioni artistiche, dai connazionali che alle stesse date andavano elaborando i fondamenti dell’estetica classicista e della ricezione di Reni. Un gusto condiviso dai collezionisti, ai quali crediamo possa essere ricondotta la responsabilità delle derivazioni reniane che analizzeremo qui di seguito, stimolati alla riproduzione delle proprie raccolte dall’esempio del marchese Vincenzo Giustiniani, promotore della Galleria Giustiniana. Catalogo ante litteram delle sculture della sua collezione, realizzato tra il 1630 e il 1636 sotto la direzione del tedesco Joachim von Sandrart (1606-1680), questa famosa impresa editoriale diede un grandissimo impulso alla stampa di traduzione[6]: nel resto d’Europa nacquero iniziative simili, come le Variarum imaginum a celeberrimis artificibus pictarum Caelaturae, serie di trentaquattro stampe d’après dipinti della collezione del mercante olandese Gerard Reynst e del fratello Jan, commissionata da Gerard nel 1655 e completata forse ad Amsterdam tra il 1660 e il 1671[7]. Un altro esempio è fornito dal Theatrum Pictorium di David Teniers il Giovane (1610-1690), pubblicato a Bruxelles nel 1660, dove appaiono riprodotti i dipinti italiani più importanti della collezione dell’arciduca Leopoldo Gugliemo d’Asburgo, governatore dei Paesi Bassi spagnoli[8]. In entrambe le raccolte sono incluse derivazioni da Reni[9] (figg. 2-3).
"Un gusto diverso mosse invece i numerosi intagliatori francesi presenti a Roma nella prima metà del secolo, influenzati, nelle loro predilezioni artistiche, dai connazionali che alle stesse date andavano elaborando i fondamenti dell’estetica classicista e della ricezione di Reni."
Forse in questo contesto di rinnovato interesse per le stampe d’après si inseriscono le derivazioni reniane dal San Michele Arcangelo della chiesa romana di Santa Maria della Concezione. Due di esse furono realizzate nel 1636: una dal peintre-graveur lorenese Remy Vuibert[10], l’altra, pubblicata da Giovanni Battista De’ Rossi[11] da un intagliatore anonimo. Queste forniscono un termine ante quem all’esecuzione del dipinto, commissionato dal cardinale Antonio Barberini per la chiesa dei Cappuccini, durante i lavori di rinnovamento da lui finanziati nel corso degli anni Trenta[12]. La terza stampa fu eseguita dal bulinista fiammingo Pieter de Bailliu, documentato a Roma tra il 1631 e il 1637[13] (fig. 4). Vista la concentrazione di tali traduzioni intorno alla metà del quarto decennio, a brevissima distanza di tempo dall’esecuzione del San Michele, ci pare molto plausibile far risalire l’iniziativa della loro realizzazione al committente del quadro. Il cardinale poteva essere interessato a divulgare l’immagine di un’opera già molto apprezzata all’epoca, impiegata da Bellori, solo pochi decenni dopo, come esempio dell’adesione reniana alla teoria dell’Idea[14]. Purtroppo i d’après non recano dediche o iscrizioni che alludano a tale commissione, dunque questa rimane solo un’ipotesi. Tuttavia, mentre di Bailliu e del suo soggiorno romano si sa poco, è probabile che Remy Vuibert, durante la permanenza in Italia tra il 1634 circa e il 1637[15], fosse inserito nel contesto della committenza Barberini, notoriamente filofrancese[16], e che, nell’ambito di questa, avesse incontrato Nicolas Poussin con il quale collaborò alla decorazione della Grande Galleria del Louvre una volta tornato in Francia[17]. Antonio Barberini, ‘protettore degli affari’ della monarchia francese nell’Urbe, costantemente in rapporti con membri della diplomazia e artisti d’Oltralpe, può avere al contempo favorito la riproduzione di una figura come quella del San Michele Arcangelo per l’interesse di stampo ‘nazionalistico’ che poteva suscitare nel pubblico francese[18]: l’arcangelo era infatti tradizionalmente considerato protettore della Francia, come ricorda l’iscrizione di un anonimo bulino pubblicato anni dopo dall’editore e incisore parigino Nicolas Bonnart I[19], e la tela di Reni aveva un illustre precedente nel Grand Saint Michel di Raffaello, presente nelle collezioni reali francesi da quando Leone X lo aveva donato a Francesco I nel 1518.
"Quanto mai legate a doppio filo alle esigenze del collezionismo furono, a nostro avviso, anche le derivazioni da Reni firmate da un altro intagliatore francese, Sébastien Vouillemont."
Quanto mai legate a doppio filo alle esigenze del collezionismo furono, a nostro avviso, anche le derivazioni da Reni firmate da un altro intagliatore francese, Sébastien Vouillemont. Presente a Firenze nel 1637, come si deduce dall’iscrizione «Sculp. Floren. Seb. Vouillemont Gal. An. 1637» apposta sul Ritratto di Vittoria della Rovere granduchessa di Toscana, l’incisore fu a Roma tra gli anni Trenta e Cinquanta, dove si dedicò al ritratto – sue le stampe che immortalano le fattezze di Francesco e Antonio Barberini, Innocenzo X e del cardinale Richelieu, per esempio – e alla stampa di traduzione. Grazie a lui opere conservate nell’intimità dei palazzi e invisibili ai più vennero consegnate a una diffusione di livello europeo[20].
Tra i suoi d’après Reni ricordiamo quello dal Cristo crocifisso con la Madonna e san Giovanni Evangelista, oggi ad Alnwick Castle nella collezione del duca di Northumberland, «copia in piccolo, ancorché alquanto diversa» della celebre Crocifissione dei Cappuccini di Bologna[21]. L’intagliatore dovette realizzare la stampa a Roma[22] intorno al 1639, prima o dopo il trasferimento della tela dalla collezione privata del cardinale Berlingiero Gessi alla sua cappella in Santa Maria della Vittoria. Vista la natura privata del dipinto, presumiamo che nell’iniziativa della derivazione abbia giocato un ruolo lo stesso Gessi, stimolato non solo dall’interesse devozionale del quadro, ma anche dalle sue analogie con la celeberrima pala d’altare bolognese, già copiata e incisa nell’ambito della bottega reniana.
Come per il pendant di rami, sui quali ci soffermeremo a breve, raffiguranti la Vergine che cuce e la Madonna con Bambino e san Giovannino tradotti durante la loro permanenza in collezione Ludovisi, anche per la coppia di stampe con la Giuditta con la testa di Oloferne (fig. 5) e la Morte di Lucrezia (fig. 6), datate 1638, si può legittimamente parlare di derivazioni promosse per iniziativa del collezionista. I prototipi in realtà non sono chiari[23], ma crediamo, in accordo con Evelina Borea, che i modelli siano da riconoscere in una coppia di tele conservate presso la Galleria Spada di Roma, verosimilmente copie di autografi reniani commissionate da Bernardino Spada tra il 1627 e il 1631, durante il suo mandato di cardinale legato a Bologna[24].
"Notevoli incertezze permangono sulle sorti del dipinto originale dopo lo sfumato acquisto da parte della regina di Francia Maria de’ Medici, caduta in disgrazia nel 1631"
È stato supposto un modello proveniente dalla collezione Spada, ugualmente una copia, non un originale, anche per la derivazione del celeberrimo Ratto di Elena realizzata dal francese Louis Boullogne il Vecchio nel 1637[25]. Notevoli incertezze permangono sulle sorti del dipinto originale dopo lo sfumato acquisto da parte della regina di Francia Maria de’ Medici, caduta in disgrazia nel 1631: per alcuni studiosi il Ratto di Elena restò a Bologna fino alla metà degli anni Trenta, quando si esaurirono gli encomi poetici, poi raggiunse Roma dove venne acquistato da un misconosciuto mercante di Lione citato da Malvasia[26]; per altri la tela era a Roma fin dal 1631[27]. Dunque, stando alle date, Boullogne potrebbe aver realizzato la sua acquaforte d’après il Ratto di Elena originale, ma è altrettanto plausibile che ne abbia inciso la copia di Giacinto Campana, commissionata, tra il 1628 e il 1631, dal cardinale Bernardino Spada per la propria raccolta romana. In questo caso si tratterebbe di una stampa promossa dal collezionista per cavalcare il successo di un’invenzione reniana famosissima, tra l’alto ritoccata dallo stesso Reni e dunque considerabile alla stregua di un originale[28]. Come rileva Malvasia, che preferisce tacere il nome dell’incisore e ricordare solo quello dello stampatore, il «Rossi di Roma»[29], l’acquaforte di Boullogne non fu eseguita con grande abilità. Assolse comunque al fine per il quale era stata pensata: documentare una delle invenzioni reniane più celebri.
Anche per il bulino raffigurante la Visione di san Filippo Neri inciso da uno dei rari intagliatori italiani coinvolti nella derivazione da Reni a date precoci, Luca Ciamberlano[30], si può parlare di una traduzione incoraggiata dai committenti del dipinto[31]. La stampa è datata 1615, esattamente un anno dopo l’esecuzione della nota pala d’altare per la chiesa di Santa Maria in Vallicella e, a nostro parere, si pone a conclusione di un’impresa editoriale voluta dagli Oratoriani a partire dal 1609, a cui parteciparono affiancati gli stessi Reni e Ciamberlano: la serie di Episodi della vita di san Filippo Neri incisi a bulino da quest’ultimo sulla base di disegni del pittore bolognese[32]. I religiosi promossero la derivazione dalla pala reniana soprattutto con fini devozionali e l’immagine riscosse un successo tale da divenire prototipo compositivo e iconografico per innumerevoli scene sei e settecentesche di estasi, come ricorda Emile Mâle[33]. Oltre a moventi stilistici e di gusto, condivisi da intagliatori, stampatori e committenti, furono dunque anche finalità religiose a orientare la derivazione incisoria da Reni della prima metà del secolo.
"I religiosi promossero la derivazione dalla pala reniana soprattutto con fini devozionali e l’immagine riscosse un successo tale da divenire prototipo compositivo e iconografico per innumerevoli scene sei e settecentesche di estasi"
Abbiamo già sottolineato il contributo del pittore alla diffusione delle proprie invenzioni sacre, in particolare di quella della Madonna con Bambino dormiente, tramite le incisioni dei membri della sua bottega o del suo più stretto entourage. Aggiungiamo qui che alcuni intagliatori e stampatori presenti a Roma nella prima metà del secolo seppero riconoscere il potenziale commerciale di certe invenzioni sacre del pittore e ne realizzarono d’après di immenso successo, contribuendo a stabilizzare l’idea della vocazione prevalentemente religiosa dell’arte reniana poi diffusa dalla storiografia. Sassoferrato, di cui abbiamo già parlato riguardo ai dipinti tratti dalle acqueforti con la Madonna con Bambino dormiente, fornì un ulteriore, notevolissimo contributo a tale percezione.
Un’invenzione di Guido Reni particolarmente fortunata fu quella della Madonna orante. Ci soffermiamo in particolare su una delle tante Madonne inventate da Reni, quella con gli occhi umilmente rivolti verso il basso e le mani giunte in preghiera, da cui sono tratti due bulini, uno di Jean Baron (fig. 7), l’altro di François de Poilly[34]. Dal momento che entrambi, nell’iscrizione, recano il pinxit di Reni, è probabile che il modello delle derivazioni sia da riconoscere in un dipinto del maestro, plausibilmente presente a Roma dove entrambi gli incisori si trovavano intorno alla metà del secolo: Jean Baron tra il 1638 e i primi anni Cinquanta[35], Poilly, uno dei più prolifici incisori da Reni, tra il 1648 e il 1655[36].
Il bulino di Jean Baron reca l’interessante dedica a Francesco Angelo Rapaccioli (1608-1657), che permette di circoscrivere gli anni di esecuzione dell’incisione tra il 1643, quando venne creato cardinale da Urbano VIII, e il 1653, anno in cui portò a compimento i lavori di restauro della cattedrale di Terni[37]. L’iscrizione attesta al contempo il legame tra l’intagliatore e l’ecclesiastico, committente anche di Sassoferrato, che licenziò per lui il Ritratto oggi conservato al Ringling Museum of Art di Sarasota. Questo giro di rapporti rende plausibile che il modello per le numerose derivazioni di Sassoferrato dall’invenzione reniana – tra tutte ricordiamo almeno la bellissima Madonna orante della National Gallery di Londra[38] (fig. 8) – possa essere riconosciuto nel bulino di Baron. Come è altrettanto probabile che, ancora una volta, dopo l’episodio già citato delle ‘Mignardes’, Sassoferrato si sia ispirato all’incisione di Poilly per realizzare i suoi dipinti. Non solo, dunque, le derivazioni di Baron e Poilly diffusero l’invenzione reniana a livello internazionale, ma furono al contempo plausibilmente modelli per Sassoferrato[39].
"Questo giro di rapporti rende plausibile che il modello per le numerose derivazioni di Sassoferrato dall’invenzione reniana possa essere riconosciuto nel bulino di Baron"
Nel corso della prima metà del Seicento anche un altro quadro assai noto di Guido Reni, la Madonna in adorazione del Bambino dormiente della Galleria Doria Pamphilj[40], fu oggetto di una certa fortuna incisoria. La sua più antica derivazione, dedicata all’ecclesiastico «P. Carolo Borello», anonima ma stampata da Giovanni Domenico De’ Rossi, fu realizzata nel 1650, anno del giubileo[41]. Presumibilmente coevo è il bulino di François De Poilly, che ipotizziamo concepito a Roma negli anni del soggiorno in città dell’incisore[42]. Anche da questa invenzione reniana Sassoferrato derivò molti dipinti[43] e, per i motivi già spiegati, crediamo che i suoi modelli siano stati le incisioni d’après, in particolare, è molto plausibile, quella di Poilly. Non si può escludere che a ispirarlo siano state traduzioni successive, databili comunque entro gli anni Settanta, come il bulino del celebre intagliatore Cornelis Bloemaert[44] dedicato a Pietro Paolo Avila, «Picturae et liberalium artium Studiosisimo», e stampato da Giovanni Giacomo De’ Rossi[45], e quello di Jean Boulanger edito dal parigino Jean Leblond I[46]. In ogni modo i d’après e le tele di Sassoferrato concorsero all’immensa fortuna di questa immagine reniana, diffusa soprattutto per il suo potenziale devozionale.
Lo stesso ragionamento vale per l’unica derivazione esistente dalla Madonna con Bambino dormiente della basilica romana di Santa Maria Maggiore[47], realizzata dal francese Jean Gerardin nel 1661 e recante la dedica a Maria Virginia Borghese Chigi (1642-1718), pronipote di papa Paolo Borghese e moglie di Agostino Chigi, a sua volta nipote del pontefice regnante Alessandro VII[48] (fig. 9), che dovette similmente ispirare Sassoferrato in alcune bellissime tele[49] (fig. 10).
Note
Pubblicato in Francesca Candi, D’après le Guide. Incisioni seicentesche da Guido Reni, Bologna, Fondazione Federico Zeri, 2016, pp. 113-121.