fondazione zeri

di Andrea Bacchi, Elisabetta Sambo

La natura morta di Federico Zeri

 Gli studi


Quando nei primi anni Sessanta Federico Zeri cominciò a frequentare J. Paul Getty a Londra, il grande conoscitore era già un appassionato studioso di natura morta da almeno una decina d’anni. Non ci sorprende quindi che in un articolo del 1985, rievocando le sue visite a Sutton Place, Zeri scrivesse che nella biblioteca egli era attirato prima di tutto da una tela del fiammingo Frans Snyders raffigurante un grande tavolo di cucina, coperto di piatti e canestri colmi d’uva, melagrane e altra frutta, verso cui si muoveva una donna, mentre sul pavimento tutt’attorno erano disposti selvaggine varie, fagiani, aironi e polli.

Per me l’incontro con questo quadro (in cui la figura spettava a un collaboratore) ha costituito un’esperienza fondamentale: non mi sono mai stancato di esaminare l’abilità somma con cui erano descritti i chicchi dei grappoli, le penne e le piume, la ruvida scorza dei melograni. È da questo quadro che fui spinto a risalire al caposcuola di Anversa (da cui dipende lo Snyders), Pietro Paolo Rubens […] il più grande, più completo, più autentico pittore di tutti i tempi (fig. 1)[1].

Per la rivalutazione del genere della natura morta era stata cruciale la mostra di Parigi del 1952 ideata da Charles Sterling[2]. È interessante confrontare il brano di Zeri appena citato con uno tratto dalla recensione di Roberto Longhi a quella memorabile esposizione, in cui lo studioso plaudiva alla scelta del curatore di tagliare fuori gli sviluppi del genere nel barocco italo fiammingo: Lì, non ci si poteva più esprimere in vera ‘natura morta’, e lo Sterling l’ha bene inteso astenendosi dal richiamare i trofei straripanti di retorica vegetale dei nostri Giordano, Ruoppolo e simili; dichiarando perciò superflua anche la presenza del fiammingo Snyders con la sua polleria vermiglia e starnazzante[3].


"Per me l’incontro con questo quadro ha costituito un’esperienza fondamentale: non mi sono mai stancato di esaminare l’abilità somma con cui erano descritti i chicchi dei grappoli, le penne e le piume, la ruvida scorza dei melograni."


Se qui la distanza dal suo maestro ideale sembrerebbe incolmabile, è però vero che Zeri amò intensamente anche quella natura morta ‘silente’ cara a Longhi, quella della stagione caravaggesca.

Proprio nello stesso fascicolo di «Paragone» del 1952 nel quale Longhi recensì la mostra dell’Orangerie, Zeri aveva esordito come studioso di tale genere con la pubblicazione di una Natura morta firmata da Giuseppe Recco da lui ritenuta un’opera giovanile dell’artista napoletano (fig. 2)[4]. Leggendo il breve testo del 1952 si ha l’impressione che a quella data il giovane studioso abbracciasse la predilezione di Longhi per quei ‘pittori della realtà’ di area lombarda: nel sottolineare i tratti di cultura bergamasca – Evaristo Baschenis, Bartolomeo Bettera – della tela di Recco, Zeri accennava anche alla successiva «specializzazione peschereccia» del pittore napoletano, e in questa espressione sembrerebbe di poter leggere un’intonazione dispregiativa di segno longhiano, quasi un parallelo ‘marino’ della «polleria vermiglia e starnazzante» di Snyders[5].

Già in quegli anni, però, Zeri stava lavorando assiduamente a quelle due pietre miliari per la storia dell’arte nella Roma del Sei e Settecento che sono i cataloghi delle Gallerie Spada (1954) e Pallavicini (1959). Come opportunamente sottolineato da Mina Gregori nel 2009, proprio da questi volumi «è partita la ricerca sulla natura morta romana del periodo barocco»[6]. Confrontandosi per la prima volta con quella «giungla del Seicento» della pittura barocca, particolarmente intricata e quasi impenetrabile agli occhi del conoscitore, soprattutto per quello che riguarda la natura morta, Zeri recuperò e mise a frutto tutte le informazioni e i dati positivi ricavabili dalla letteratura artistica e dagli inventari dell’epoca: cominciarono così a riemergere e ad assumere una fisionomia riconoscibile figure quali Christian Berentz, Franz Werner von Tamm, Karel van Vogelaer, ‘Spadino’, Zenone Varelli, esponenti di punta di quel barocco italo fiammingo che non era nelle corde di Longhi.

In quegli anni non era però venuto meno il suo apprezzamento per quel filone della natura morta italiana riconducibile al grande esempio di Caravaggio. Il 27 dicembre 1955 lo studioso scriveva al collezionista milanese Alberto Saibene segnalandogli due Nature morte, da lui ritenute opere di Tommaso Salini sulla scorta della sigla S.T. che compare in una delle due, quella con «un più spiccato accento caravaggesco», giudicata da Zeri:un autentico capolavoro, in uno stato di conservazione assolutamente sbalorditivo […] fa un’enorme impressione, sia per la bellezza della natura morta (fragole, un canestro di vimini, mele e prugne, fichi), sia per l’incredibile freschezza del pigmento cromatico (figg. 3-4).

Nonostante il riferimento a Salini sia poi caduto in favore di quello al lucchese Simone del Tintore, nella cui cartella Zeri stesso aveva spostato le foto[7], il riconoscimento di una seppur lontana matrice caravaggesca resta valido (Simone era stato allievo di Pietro Paolini), così come quello della sua assoluta qualità: la lettera rimane dunque una testimonianza di grande interesse del proficuo rapporto di Zeri con il mercato, niente affatto in contrasto con il parallelo impegno alla stesura del catalogo della Galleria Spada di cui egli era stato ispettore[8].


"Il problema del contributo di Caravaggio e del caravaggismo alla nascita della natura morta avrebbe continuato ad appassionare Zeri. Nel 1972 è probabilmente lui a suggerire a Getty di acquistare la Cena in Emmaus, oggi riferita a Bartolomeo Cavarozzi, dove nel primo piano spicca una cesta di frutta esplicitamente dipendente dalla celeberrima Natura morta di Caravaggio dell’Ambrosiana."


Il problema del contributo di Caravaggio e del caravaggismo alla nascita della natura morta avrebbe continuato ad appassionare Zeri. Nel 1972 è probabilmente lui a suggerire a Getty di acquistare la Cena in Emmaus, oggi riferita a Bartolomeo Cavarozzi (Los Angeles, J. Paul Getty Museum), dove nel primo piano spicca una cesta di frutta esplicitamente dipendente dalla celeberrima Natura morta di Caravaggio dell’Ambrosiana. Nel 1976, poi, in Diari di lavoro 2, compaiono i due interventi fondamentali sulla natura morta caravaggesca. In quello dedicato alla ricostruzione di Tommaso Salini, lo studioso, oltre a menzionare vari inediti (figg. 5-6)[9], sottolineava come il dipinto oggi nel Museo Thyssen a Madrid, Giovane con fiasco e ortaggi (fig. 7) dovesse essere opera di due mani diverse, un naturamortista (Salini) e un figurista (probabilmente Michelangelo Cerquozzi)[10]. Si apriva così una accesa discussione oggi non ancora chiusa, su cui lo stesso Zeri sarebbe ritornato, con la veemenza tipica dei suoi articoli giornalistici, nel 1996, in occasione della mostra sulla Natura morta al tempo di Caravaggio, recensita sulle pagine de «La Stampa»[11]. Rifiutando decisamente la proposta di Victoria Markova, che su «Paragone» nel 1989, a partire proprio dal dipinto di Madrid, aveva accresciuto notevolmente il corpus di Salini come pittore di figura[12], Zeri scriveva perentorio: «Tale scritto è tra le cose più folli e deliranti di tutta la storiografia artistica: in un accesso di pansalinismo vengono riferite al pittore del primo Seicento romano cose di mezzo secolo più tarde». La vicenda relativa al dipinto di Madrid dimostra come Zeri avesse sempre nitido il problema della natura morta come genere appannaggio perlopiù di specialisti che spesso lavorano accanto a pittori di figura. È il caso di entrambi i dipinti Getty già citati, quello di Snyders un tempo a Sutton Place e la Cena in Emmaus nella quale a lungo è stato riconosciuto l’intervento del Maestro della natura morta Acquavella e, sia detto per inciso, proprio di questo pittore Zeri possedeva due magnifiche tele[13] in bilico tra silente lucidità caravaggesca e prorompente vitalità barocca, magico punto d’incontro tra i due momenti della storia di questo genere più volte indagati dallo studioso[14].

Nell’altro intervento sulla natura morta comparso in Diari di lavoro 2, Zeri avanzava una proposta in qualche modo rivoluzionaria: l’identificazione del Maestro di Hartford, nome di comodo creato da Charles Sterling nel 1952 per indicare uno specialista attivo a Roma intorno al 1615-1620, con il giovanissimo Caravaggio[15]. Lo studioso accostava al namepiece del gruppo, la tela del Wadsworth Atheneum di Hartford, due Nature morte della Galleria Borghese e soprattutto arrivava a identificare tutte e tre le tele con altrettanti dipinti citati nell’inventario dei beni sequestrati al Cavalier d’Arpino (a seguito di un noto processo) nel 1607 (figg. 8-10)[16]. Zeri analizzava questi quadri attraverso il confronto con due capolavori del primo Merisi, il Ragazzo con il canestro di frutta e il Bacchino malato, opere anch’esse nella Galleria Borghese e citate nel suddetto inventario del 1607. Poiché la datazione intorno alla metà degli anni Novanta di queste opere notissime è unanimemente accolta da tutta la critica, ne conseguiva una logica retrodatazione del gruppo Hartford agli inizi di quel decennio.

Da questa proposta scaturì un violento dibattito con un intervento a dir poco scomposto di Maurizio Calvesi (1979)[17]. In realtà già con una lettera a Zeri del 1980, l’autorevole voce di Charles Sterling tirava lucidamente le fila dello spinoso problema, accogliendo la nuova datazione del gruppo «déjà dans les années 1590»[18].

Se l’identificazione del Maestro di Hartford con il giovane Caravaggio, un’ipotesi di lavoro che Zeri avrebbe coltivato fino alla fine dei suoi giorni[19], è stata fatta cadere anche da parte della critica più attenta[20], immutato rimane il valore della scoperta di Zeri, ovvero l’individuazione del momento germinale della natura morta in Italia, momento e contesto vicinissimi a Caravaggio. E dispiace vedere come anche un longhiano della prima ora quale Ferdinando Bologna (nei primi anni la redazione di «Paragone» era composta proprio da Longhi, Arcangeli, Bologna, Briganti e Zeri), nel 2009, invece di sottolineare come fosse stato lo studioso romano a datare al 1590-1595 queste nature morte, parlasse invece di «bizzarrie filologiche» alle quali Federico Zeri si sarebbe lasciato andare nel testo del 1976[21].


Se l’identificazione del Maestro di Hartford con il giovane Caravaggio, un’ipotesi di lavoro che Zeri avrebbe coltivato fino alla fine dei suoi giorni, è stata fatta cadere anche da parte della critica più attenti immutato rimane il valore della scoperta di Zeri, ovvero l’individuazione del momento germinale della natura morta in Italia, momento e contesto vicinissimi a Caravaggio.


Quanto lo studioso amasse la natura morta lo dimostra anche il breve ricordo di Renato Guttuso, scritto all’indomani della sua scomparsa nel 1987, dove l’artista diveniva quasi un ultimo esponente di quella ‘pittura della realtà’ cara a Longhi: «alimento […] il ricordo di opere il cui impatto non è mai venuto meno […] certi quadri di erbe e fiori, certe nature morte cariche di dolore e di affetto per gli umili […]. Davvero la morte di Guttuso mi rattrista»[22].

Coronamento delle ricerche di Zeri sulla natura morta furono i due volumi editi da Electa nel 1989, un’impresa nata sotto l’egida dello studioso che peraltro si riservò la sola direzione scientifica affidandone la curatela a Francesco Porzio che coordinò un nutrito gruppo di specialisti tra i quali spiccavano i nomi di Andreina Griseri, Mina Gregori e, per le generazioni più giovani, quelli di Alessandro Morandotti, Laura Laureati e Ludovica Trezzani, presenti anche in questo volume. L’imprinting Zeri si riconosceva prima di tutto nell’ordinamento della materia per scuole regionali secondo un modello di lanziana e longhiana memoria già collaudato nei memorabili volumi della Pittura in Italia a cui il grande studioso aveva lavorato. Nel 1989 si tentava per la prima volta la sistematizzazione di un materiale divenuto negli anni imponente, come Zeri aveva sottolineato appena due anni prima nello scritto introduttivo al volume dedicato ai dipinti di natura morta conservati nelle collezioni private di Parma:

Il dato certo e innegabile è che l’inattesa quantità di dipinti che continuano a venire alla luce, il numero di pittori (quasi sempre ignoti alle fonti scritte o stampate), l’intricata successione di rapporti, prestiti formali, filiazioni, riprese e innovazioni, oltre a rendere lo studio della Natura Morta un campo tra i più ardui e difficili della Storia dell’Arte, denunciano come il genere secondario, che un tempo si credeva svolto ai margini della grande pittura, in realtà sia stato un aspetto primario e fondamentale della civiltà figurativa di alcune regioni d’Europa, l’Italia, la Spagna, la Francia e l’area di lingua tedesca[23].

Sul rapporto stretto fra lo studio della natura morta e il mercato Zeri insisteva anche nella breve prefazione ai volumi Electa. Che questo rapporto potesse facilmente intorbidirsi, allora come oggi, era ben chiaro a Zeri che scriveva: «C’è da sottolineare un aspetto molto rilevante, e cioè che alla sua [dell’opera] stesura non hanno partecipato certi interessi mercantili che avviliscono altre trattazioni analoghe apparse negli ultimi anni»[24].

Quanto fervido, peraltro, fosse quello stesso rapporto con il mercato e il collezionismo per quegli studi specialistici veniva lucidamente indicato dallo stesso studioso in un altro passaggio della prefazione: «il rinnovato interesse [degli studi] sollecita la curiosità, da cui dipende il collezionismo, e questo, a sua volta, genera il mercato. Si avvia quindi lo scavo, la ricerca, che porta in superficie opere, di levatura rilevante o modesta, rimaste sepolte»[25].

Pochi anni dopo, grazie alla frequentazione congiunta del collezionismo e del mercato, Zeri avrebbe dissepolto un artista da riconoscere come uno dei protagonisti della natura morta di età barocca. Commentando in una lettera del 4 giugno 1993 una tela che gli era stato sottoposta, Zeri scriveva:

L’autore di questo splendido dipinto (fig. 11) è stato da me identificato da molti anni grazie a documenti d’archivio. Di lui si conosce soltanto il nome di famiglia, Gallarotti, citato per tre volte, come pittore di vasi di fiori (soprattutto rose) nell’Inventario del 1686 della Collezione d’Arte del Principe Maffeo Barberini [...]. Visitando la casa di una famiglia di Firenze, imparentata con i Barberini, ebbi modo d’identificare, senza alcun dubbio e senza possibilità d’errore, uno dei tre dipinti [fig. 12] [...]. Il Gallarotti non appartiene alla corrente caravaggesca (sebbene alcune delle sue tele siano state riferite nel passato ad Orazio Gentileschi (figg. 13-14) [26]). Egli è un lucidissimo naturalista di non comune acutezza ottica e di straordinaria qualità tecnica[27].


"Pochi anni dopo, grazie alla frequentazione congiunta del collezionismo e del mercato, Zeri avrebbe dissepolto un artista da riconoscere come uno dei protagonisti della natura morta di età barocca."


Due anni dopo, una domenica di fine novembre 1995, Anna Ottani Cavina mi raggiunse nella villa di Mentana dove dal 1986 ero solito trascorrere molti fine settimana per aiutare Zeri a riordinare i materiali della fototeca: insieme raccogliemmo dalla sua viva voce il racconto dell’incontro con questo pittore che ai suoi occhi appariva come:una specie di parallelo nostrano di certa natura morta spagnola tipo Sánchez Cotán. Sánchez Cotán si può chiamare caravaggesco? Io non credo assolutamente. Perché c’è una corrente naturalistica secentesca che non è caravaggesca, ma che è semplicemente spinta dallo studio accurato delle forme naturali[28].

Nel 2004 Andrea G. De Marchi avrebbe pubblicato il dipinto in collezione privata a Firenze già Barberini segnalato da Zeri nella lettera appena citata, proponendo di riconoscere il ‘Gallarotti’ degli inventari barberiniani nel riminese Giovanni Battista Gavarotti, artista ricordato nel 1663 da Giustiniano Martinioni nelle aggiunte alla Venetia città nobilissima di Francesco Sansovino come pittore che «dipinge esquisitamente fiori»[29]. De Marchi indicava inoltre come il Gavarotti avesse lavorato per Gaspar de Haro y Guzmán, marchese del Carpio e suggeriva di identificare una delle tele realizzate per il marchese raffigurante proprio l’artista intento a dipingere fiori con un dipinto degli Uffizi, già riferito a Mario dei Fiori ma proveniente dalla collezione del Carpio, e indicato in una lettera al segretario di Cosimo III, Apollonio Bassetti, come opera di un altrimenti ignoto «Mario Garavetti»[30]; in conclusione De Marchi soggiungeva che la riscoperta del riminese Gavarotti poneva «una nuova candidatura circa la ricerca dell’autore dell’affascinante Fiasca della Pinacoteca di Forlì», forse il quadro simbolo dei misteri della natura morta italiana[31].

Negli ultimi anni Zeri aveva iniziato a lavorare anche a un altro caso che riteneva importante, quello della tela con Natura morta con oggetti liturgici e paramenti vescovili pubblicata nel 1984 da Luigi Salerno come del fratello del Guercino, Paolo Antonio Barbieri (fig. 15)[32]. Per Zeri invece questo dipinto non era emiliano ma spagnolo e a suo giudizio si legava assai strettamente con la Natura morta con vassoi in argento dorato (Oviedo, collezione Masaveu), firmata nel 1624 da Juan Bautista de Espinosa, un pittore documentato dal 1612 al 1629 fra Toledo e Madrid (fig. 16)[33]: un caso che ricorda come, per quest’epoca anche per la natura morta, sia dirimente studiare le relazioni fra Italia e Spagna[34]. E sui rapporti fra natura morta spagnola di primo Seicento e cultura caravaggesca, Zeri aveva del resto già scritto nel 1985 una pagina fondante dedicata alla magnifica Natura morta di provenienza Borromeo che egli attribuiva a Juan Fernández, el Labrador, e di cui forniva una mirabile lettura iconografica in chiave mariana (fig. 17)[35].

Quello delle connessioni fra la Roma caravaggesca e la penisola iberica era del resto un tema che lo appassionava e che riteneva centrale per la comprensione della stagione più eroica della natura morta: lo rivela anche un’altra perizia, stesa il 21 marzo 1998. Zeri vi prende in esame una tela (fig. 18)[36], opera di una assai famosa pittrice portoghese, rarissima al di fuori del Portogallo, Josefa Ayala Cabrera, detta Josefa de Obidos […]. Autrice di numerosi dipinti di soggetto sacro, generalmente di modesta qualità e derivati da modelli spagnoli, francesi e italiani, Josefa è celebre per le sue nature morte, nelle quali le più tarde mostrano la conoscenza dei pittori spagnoli, in particolare di Juan Sánchez Cotán e di Francisco de Zurbaràn; le più antiche rivelano invece lo studio di modelli di Juan van der Hamen e dei più antichi pittori romani del genere, come in questa tela che si basa su prototipi del cosiddetto Maestro di Hartford, di Agostino Verrocchius, e dei più arcaici autori di natura morta caravaggesca[37].

Al di là delle opere e dei casi illustrati in questo libro, molto altro rimane ancora da scoprire nelle sue cartelle e non solo in quelle dedicate agli artisti italiani o operosi in Italia. In futuro ulteriori approfondimenti non potranno che confermare le straordinarie capacità dello studioso di mettere a fuoco il problema ‘natura morta’ su scala europea e con un taglio dunque non soltanto legato alla produzione delle singole scuole. L’esame dei suoi scritti relativi alla natura morta e i materiali stessi della fototeca rivelano inoltre come egli fosse in grado di affrontare e risolvere non solo gli aspetti più strettamente stilistici ma come avesse ben presente la centralità delle questioni iconografiche. In taluni casi lo studioso muoveva proprio dalla lettura degli oggetti raffigurati nel dipinto per individuarne l’ambito culturale, giungendo talvolta a soluzioni inaspettate. Si tratta di un aspetto indagato qui accanto nel saggio di Francesca Mambelli che mette bene in luce come il nostro progetto di catalogazione valorizzi proprio anche questo versante della ricerca.


"In futuro ulteriori approfondimenti non potranno che confermare le straordinarie capacità dello studioso di mettere a fuoco il problema ‘natura morta’ su scala europea e con un taglio dunque non soltanto legato alla produzione delle singole scuole."


A puro titolo d’esempio, può essere intanto significativo leggere una perizia del 2 settembre 1997 in cui, esaminando una natura morta con una serie di ortaggi disposti sul piano di un tavolo (fig. 19)[38], proprio la lettura iconografica fornisce la prima chiave d’accesso per una corretta contestualizzazione culturale:

Già la presenza della pianta principale suggerisce che il dipinto non è italiano: il Kohl-rabi, raro in Italia, è molto coltivato nell’Europa centrale, dove è uno dei cibi più comuni. In effetti, questo dipinto è tedesco, e precisamente di Jakob Samuel Beck, nato a Erfurt in Germania nel 1715 ed ivi morto nel 1778 […]. In Italia la sua produzione è rarissima […]. Nel genere specifico della natura morta, il Beck si distingue per la scelta degli oggetti e dei vegetali, quelli presenti nelle cucine umili; in lui è del tutto assente lo sfarzoso decorativismo tipico della natura morta barocca: egli anticipa la produzione segnata dall’Illuminismo e dalle nuove idee che porteranno al tipo di natura morta predominante tra la fine del Sette e gli inizi dell’Ottocento[39].

Zeri progettava di riunire le sue ultime ricerche sulla natura morta in una raccolta, un possibile, nuovo Diari di lavoro. Non ne ebbe il tempo ma il nucleo di foto lasciate a Bologna e, in piccola parte, questo libro vogliono essere la realizzazione di quel progetto.

 


Il nucleo fotografico


È ora di descrivere questo straordinario fondo fotografico, anche in funzione dei saggi presenti in questo volume.

La quantità di stampe che lo compongono è di assoluto riguardo, ovvero oltre 14.400. Più di 6.600 raffigurano dipinti di natura morta italiana, o meglio di artisti attivi in Italia, oltre 3.000 invece sono nature morte dipinte in altri paesi europei, tutte conservate in fascicoli intestati ai singoli autori, in ordine alfabetico; le restanti, alcune migliaia, sono suddivise in base alle tipologie raffigurate: fiori, frutta, pesci, animali, tavole imbandite. Del resto, di fronte al crescere troppo veloce e, vorremmo dire, incontrollato di questa parte dell’archivio, quale altro sistema poteva adottare lo studioso se non quello di partire dai soggetti rappresentati, unico modo che poteva aiutarlo a orientarsi fra i vari specialisti del genere? L’ordinamento per autori, non più per scuole, è anche una significativa deroga rispetto ai fondi di pittura e scultura italiane, classificate proprio – lo si è sottolineato più volte – a partire dall’ambiente culturale. Un modo più veloce, forse più pratico, certo meno orchestrato e meditato.

Come hanno anche rilevato gli autori che ci hanno accompagnato nella scoperta e nello studio di questa parte dell’archivio fotografico, l’impressione è proprio quella di un lavoro di censimento e riordino lasciato interrotto a uno stato di abbozzo, seppure molto avanzato: fotografie delle stesse opere si rintracciano molto di frequente sia in cartelle dedicate ad artisti differenti che in quelle in cui lo studioso raccoglie dipinti di problematica attribuzione o anonimi. Viceversa opere di sicura paternità si trovano (apparentemente in modo inspiegabile) fuori posto. Il che significa, data la meticolosa capacità classificatoria del conoscitore, fuori contesto.


"Che Zeri abbia da sempre studiato la natura morta lo dimostrano non solo i suoi scritti precoci sull’argomento, ma anche le sue prime attribuzioni, quelle che segnava sul retro delle foto ricorrendo alla sua sigla e all’anno"


Come trovare spiegazione per questo disordine, sia pure parziale? Non certo a causa di un interesse nato in un momento tardivo nel grande studioso, fin dal principio infaticabile ‘cacciatore’ di fotografie anche di natura morta. Che Zeri abbia da sempre studiato la natura morta lo dimostrano non solo i suoi scritti precoci sull’argomento, ma anche le sue prime attribuzioni, quelle che segnava sul retro delle foto ricorrendo alla sua sigla e all’anno. In tal senso le più antiche («Z. 51» e «Z. 52») riguardano composizioni conservate nelle più importanti quadrerie nobiliari romane, proprio in concomitanza con le ricerche connesse ai suoi primi cataloghi, quelli Pallavicini e Spada.

D’altro canto, studiando l’archivio dalla parte della fotografia, per così dire, ci si accorge che il materiale è perlopiù decisamente recente, confluito nella raccolta in particolare a partire dagli ultimi due decenni di attività dello studioso, costretto pertanto a una sorta di tour de force nel riconoscimento dei dipinti raffigurati e quindi nel loro riordino. Questa sensazione di work in progress e di lavoro abbozzato sembra risalire più propriamente a queste cause, legate al reperimento stesso delle fotografie. L’impressione, pertanto, è proprio quella di una acquisizione del materiale tardiva, ovvero non giunta in tempo per nutrire la sua inesausta curiosità. Giunta almeno dopo i primi decenni della sua lunga attività di studioso. E non per sua colpa.

A conferma di ciò, è d’obbligo una osservazione, seppure scontata e banale. Mentre i fondi di pittura e scultura italiane comprendono alcune migliaia di fotografie storiche, ovvero databili entro gli anni Venti del secolo scorso, questa raccolta conta viceversa campagne fotografiche e scatti molto più recenti, più consistenti proprio a partire dal terzo decennio. Questo ovviamente perché la fortuna della natura morta negli studi, e quindi presso il mercato e i collezionisti, è molto più tarda rispetto a quella dei generi cosiddetti ‘maggiori’. L’esecuzione delle fotografie che hanno per soggetto i dipinti di natura morta, risposta puntuale all’attenzione dedicata a questo genere dalla ricerca, è pressoché esclusivamente fatto novecentesco. In proposito è interessante notare come solo sei (!) fotografie, per l’esattezza collotipi, abbiano una data ancora dentro l’Ottocento. Di queste stampe, cinque raffigurano dipinti conservati all’Alte Pinakothek di Monaco, dimostrazione palmare di una sorta di ritardo degli studi italiani dedicati alla natura morta. Le foto incominciano a crescere, come si è detto, in modo considerevole dopo gli anni Venti (guarda caso, il pionieristico articolo di Matteo Marangoni, Valori mal noti e trascurati della pittura italiana del Seicento in alcuni pittori di natura morta, è del 1917), fino a toccare quantitativi davvero considerevoli nel secondo dopoguerra, ma in particolare negli anni Ottanta e Novanta.

A questo punto, per il costituirsi della raccolta di Zeri, vengono incontro anche ricordi di amici, colleghi, antiquari e collezionisti – in questo caso principali, se non unici, fornitori di fotografie – che raccontano come lo studioso sollecitasse loro, proprio a partire dagli anni Ottanta, l’invio di materiale fotografico dedicato alla natura morta. Quella parziale confusione, pertanto, nonché le buste ordinate per soggetti, come sopra si è detto, sono testimonianza di un riversarsi particolarmente corposo di materiale fotografico proprio a partire da quegli anni, anni di abbondanza commerciale appunto, tantoché lo studioso non era più in grado di organizzare in modo sistematico l’afflusso.

Qualcosa, come una sorta di inadeguatezza, dovette sopraffarlo quando, come ricordano Ludovica Trezzani e Laura Laureati, all’epoca dei due volumi dedicati alla natura morta in Italia, nati grazie anche alla sua direzione scientifica ed editi da Electa nel 1989, dichiarò di non essere pronto per tale impresa. Le introduzioni dei loro saggi ci restituiscono il clima di quegli anni, di quei pochi incontri a Mentana e della nascita del progetto. Quello che possiamo aggiungere, almeno partendo dalla fototeca, è la sensazione non di uno scambio di informazioni fra studiosi, ma di una strada a senso unico: Zeri infatti ha colmato le sue cartelle con tutte le fotocopie corrispondenti alle immagini a corredo dei testi pubblicati nel 1989, qualora queste rappresentassero documentazioni a lui mancanti. Ma la ricchezza del suo sapere, le mille informazioni che si ricavano dalle sue note e dai suoi appunti sono rimaste chiuse dentro le cartelle, forse destinate nei suoi intenti a un’occasione diversa, sicuramente riservate a un grado di maturazione maggiore degli studi. Tutta quella sedimentazione di conoscenze che pur si era concentrata e accumulata nei suoi ricchi fascicoli già prima del 1989, non c’è, o è riflessa solo in minima parte nei due volumi. Di sicuro fra il 1989 e il 1998, fine, con lui, della crescita della fototeca, lo studioso aveva ancora raccolto moltissime altre testimonianze e fatto ulteriore luce nei suoi pensieri. Non ci è dato però misurare appieno la profondità del suo sapere.


"Qualcosa, come una sorta di inadeguatezza, dovette sopraffarlo quando, come ricordano Ludovica Trezzani e Laura Laureati, all’epoca dei due volumi dedicati alla natura morta in Italia, nati grazie anche alla sua direzione scientifica ed editi da Electa nel 1989, dichiarò di non essere pronto per tale impresa."


Ora le varie cartelle hanno restituito, almeno in parte, le sue ricerche e le sue idee a chi ha studiato con noi il fondo. Di certo ci permettono nuove valutazioni e nuovi spunti per affrontare, grazie alla generosità di questo materiale, un approfondimento sulla natura morta in Italia. Il risultato è importante, anche se, a un primo bilancio, potrebbe non sembrarlo: poche soluzioni, qualche conferma al catalogo di personalità ben note, anonimi ‘storici’ che restano tali, nuovi raggruppamenti di opere che portano all’individuazione di altri maestri anonimi. Ma è anche vero che l’accumulo stesso di materiale sconosciuto, la conoscenza di opere inedite o poco note sono piccoli progressi nella lenta messa a fuoco di una storia che solo in parte è stata chiarita e scritta, con la certezza che, prima o poi, da questa abbondanza di informazioni nasceranno nuove soluzioni.

Cercando di mettere ordine in questo incredibile fondo, sono emerse comunque novità considerevoli e da segnalare. Innanzitutto, in alcuni casi il catalogo di alcuni celeberrimi anonimi risulta arricchito da opere significative: primo esempio fra tutti, quello del cosiddetto Maestro della fiasca fiorita, al quale Daniele Benati aggiunge, proprio grazie alle foto di Zeri, un’altra versione autografa della Fiasca; ma anche il Maestro del vaso a grottesche (Alessandro Morandotti) o lo Pseudo Resani (Elisabetta Sambo) vedono risarcito il loro corpus di altre opere, con la conseguente possibilità di nuove chiavi interpretative. Di contro, il caso Pseudo Fardella/Maestro di Carlo Torre sembra ormai definitivamente risolto da Alberto Crispo che ha proposto di identificare l’anonimo col lombardo Angelo Maria Rossi.

L’avvistamento di nuovi raggruppamenti coerenti di opere ha portato viceversa alla individuazione e creazione di nuovi anonimi, ovvero il Maestro dei segni zodiacali (Davide Dotti) e quello delle ceramiche romagnole (Giulia Palloni), con il conseguente arricchimento di interi contesti culturali, per l’esattezza quello veneto e quello romagnolo nel corso del Seicento. Per la Toscana viene fatto il punto sull’attività dei fioranti medicei da Ilaria Della Monica. Sono poi gli interventi di Ludovica Trezzani, Laura Laureati e Yuri Primarosa a descrivere la natura morta a Roma nel suo secolo d’oro, ovvero in epoca barocca, con cospicui chiarimenti e aggiunte. Mentre, per quanto riguarda Napoli, grazie agli studi di Giuseppe Porzio scompare definitivamente il nome di Paolo Cattamara, fino ad anni recenti ritenuto lo specialista per eccellenza di una sorta di sottogenere, quello dei Sottoboschi, ormai rientrato invece dentro l’attività di Paolo Porpora. Considerando la difficoltà che queste ricerche presentano, anche per carenza di fonti e documenti in grado di soccorrere nell’individuazione degli artisti, il risultato è notevole, il bottino abbondante.

La mappa ideale proposta dal libro è, come si è visto, quella per scuole, secondo il modello dei volumi del 1989, estesa anche laddove Zeri, almeno nella parte non ordinata della sua fototeca, vi aveva rinunciato. Su altre aree, oppure su altre tipologie ben precise, ma non toccate da questi saggi, si lascia spazio alle schede delle opere corredate dalle immagini che da questo momento in poi verranno via via pubblicate nel sito della Fondazione. Ovvero si lascia spazio ai futuri interventi di chi, insieme a noi della Fondazione, vorrà continuare a ragionare su questo materiale e a riordinarlo, a chiarire nodi critici e provare a proporre nuove soluzioni ad annosi problemi. Molto altro dunque resta da studiare, da scoprire, da precisare; crediamo però che già i materiali presentati in questo volume possano fornire un’idea adeguata della vastità delle ricerche, delle innumerevoli scoperte e soprattutto di quella straordinaria ‘intelligenza delle maniere’ che guidava Zeri anche nello studio della natura morta.

 


         Note


  • [1] L’articolo I mastini del capitano, uscito su «La Stampa» il 22 dicembre 1985, è stato ripubblicato in Zeri 1990, pp. 268-270. Il dipinto, olio su tela, cm 152x240, è oggi conservato al J. Paul Getty Museum di Los Angeles (Fototeca Zeri, inv. 157416).
  • [2] La Nature morte 1952.
  • [3] Longhi 1952, pp. 50-51.
  • [4] Olio su tela, cm 100x145 (Fototeca Zeri, invv. 208770-208772). Il dipinto (firmato G.RECCO), un tempo a Londra nella collezione di un grande studioso di temi caravaggeschi, Ben Nicholson, venne quindi acquistato dal Museo di Rotterdam nel 1963. Per una diversa, più avanzata collocazione cronologica della tela si veda R. Middione, in Natura morta 2002, pp. 211-212.
  • [5] Zeri 1952.
  • [6] Gregori 2009, p. 166.
  • [7] Olio su tela, cm 102x70 ciascuno (Fototeca Zeri, invv. 208181, 208192 e 208183, 208191).
  • [8] Agosti 2008, p. 294.
  • [9] Fra i dipinti che Zeri pensava andassero attribuiti a Salini e che non vennero illustrati nel suo intervento, vale forse la pena riprodurre qui le «due piccole tele con ortaggi invernali che nel 1972 erano presso Alberto Di Castro a Roma» (Fototeca Zeri, invv. 208985, 208986 e 163742, 163743).
  • [10] Olio su tela, cm 105x73 (Fototeca Zeri, inv. 102135). Zeri 1976c, pp. 107-108. Per un riesame recente del problema che sembra accogliere le ipotesi di Zeri si veda M.C. Terzaghi, in Fiori 2010, pp. 80-82.
  • [11] Zeri 1996.
  • [12] Markova 1989.
  • [13] Le due tele sono ora riferite a Michelangelo Cerquozzi (pp. 174-175, figg. 4-5) da Laura Laureati, che le discute nel proprio saggio identificandole con due dipinti citati già nel 1690 come Cerquozzi nella collezione di Antonio Amici Moretti.
  • [14] Ci si augura che se Zeri avesse potuto leggere queste righe non le avrebbe giudicate alla stregua di certi passaggi del catalogo romano del 1995 per i quali egli scriveva: «vi si leggono considerazioni lapidarie quali “il dotto opera nel silenzio”, o anche “rumore e pensiero non sono propriamente termini opposti ma un’opposizione c’è” oppure “la scoperta della purezza, quale dimensione privilegiata dell’arte del Caravaggio non è più sorprendente dell’apprendere che Mozart adorava il turpiloquio e non era educato”. Si passa dunque da aforismi del tipo di quelli racchiusi nei chinese cookies o nei Baci della Perugina al vaniloquio di taluni salotti del Generone e dei Palazzinari romani. E così via» (Zeri 1996).
  • [15] Zeri 1976a.
  • [16] Natura morta con frutta, cesto e vasi di fiori, olio su tela, cm 74x100, Hartford, Wadsworth Atheneum (Fototeca Zeri, invv. 161959, 161967, 161968); Natura morta con frutta, ortaggi e vaso di fiori, olio su tela, cm 105x184, e Natura morta di uccelli, olio su tela, cm 103,5x173, entrambe Roma, Galleria Borghese (Fototeca Zeri, invv. 161957, 161970-161977, e 161958, 161978, 161979).
  • [17] Nel 1979 i due dipinti Borghese erano stati esposti in una mostra tenutasi a Palazzo Venezia e curata da Claudio Strinati (Quadri romani 1979, pp. 62-65). Maurizio Calvesi era intervenuto sulla questione pubblicando un articolo sull’«Espresso» dell’11 febbraio 1979 dove attaccava violentemente «le sgrammaticature dei due quadrucci» (i due dipinti Borghese), ritenuti «due opericciole». L’importanza della ricostruzione di Zeri veniva quindi sostenuta da Giuliano Briganti sulle pagine di «Repubblica» il 17 febbraio 1979 ma, proprio in seguito all’intervento di Calvesi, l’allora soprintendente Dante Bernini, cui si doveva l’introduzione del catalogo, decise con un’azione del tutto sconcertante, di togliere le due tele dalla mostra. L’intera vicenda è stata ripercorsa da Anna Ottani Cavina (2009, p. 137 nota 29). Nel 1996, in occasione della mostra romana La natura morta al tempo di Caravaggio, Claudio Strinati rispondeva il 24 aprile su «Repubblica» (Federico Zeri. Una mostra e molto rancore) alla recensione di Zeri sopra citata, uscita su «La Stampa» il 21 aprile. Uno degli interventi più recenti sul tema è quello di Cottino 2011.
  • [18] La lettera, inviata da Sterling a Zeri il 18 marzo 1980, si conserva nella fototeca della Fondazione Federico Zeri a Bologna (coll. NM 30/5/1-15) ed è già stata segnalata da Anna Ottani Cavina (2009, p. 133) insieme a un’altra lettera di Sterling a Zeri del 13 marzo 1982 (Fototeca Zeri, NM 30/5/1-15) dove lo studioso francese riporta il passaggio relativo al Maestro di Hartford della nuova prefazione dell’edizione americana del suo volume sulla natura morta.
  • [19] Cfr. Ottani Cavina 2009, pp. 126, 138 nota 47.
  • [20] Mi riferisco in particolare a Mina Gregori. Le due Nature morte della Galleria Borghese, così come quella di Hartford, vennero infatti esposte all’interno del nucleo delle opere di Caravaggio alla mostra napoletana del 1985 e in tale occasione furono attentamente studiate proprio dalla Gregori che non ne escludeva l’attribuzione caravaggesca (M. Gregori, in Caravaggio 1985, pp. 206-211). Successivamente la studiosa ha però maturato una diversa idea: «Si tratta senza alcun dubbio di un pittore vicino al Merisi e suo seguace» (M. Gregori, in Natura morta 2002, pp. 28-30).
  • [21] Bologna 2009.
  • [22] F. Zeri, Tra nature morte cariche di dolore («La Stampa», 28 gennaio 1987), ora in Zeri 1990, p. 282.
  • [23] Zeri 1987, pp. VII-VIII.
  • [24] F. Zeri, in Porzio, Zeri 1989, v. 1, p. 9.
  • [25] Ibidem.
  • [26] Zeri qui verosimilmente alludeva alle due Nature morte, già in collezione Poletti, per le quali sia Carlo Volpe, sia più tardi Luigi Salerno, avevano ravvisato rapporti con il Gentileschi; le due tele sono state esposte alla mostra di Monaco e Firenze (Natura morta 2002, pp. 174-176) dove sono state studiate da Mina Gregori che le ha presentate come possibili Saraceni.
  • [27] Fototeca Zeri, perizia del 4 giugno 1993.
  • [28] Stralcio da una trascrizione registrata in occasione di quei colloqui, nel 1995.
  • [29] De Marchi 2004. Un primo profilo dell’artista, ancora senza opere, ma dove già veniva proposto il collegamento fra il pittore citato da Martinioni e l’autore dei dipinti Barberini, era stato pubblicato da E.A. Safarik, in Porzio, Zeri 1989, v. 1, p. 382.
  • [30] De Marchi 2004. Si veda però anche Bocchi 2012, p. 61, che sembra esprimere riserve sulla coerenza stilistica del gruppo.
  • [31] De Marchi 2004.
  • [32] Olio su tela, cm 112x140 (Fototeca Zeri, invv. 159830, 159831). Salerno 1984, pp. 130-131; in seguito questa attribuzione ha trovato largo consenso (cfr. D. Benati, Paolo Antonio Barbieri, in Benati, Peruzzi 2000, pp. 78, 82); Anna Colombi Ferretti riferisce invece il dipinto a uno dei nipoti di Guercino, Benedetto Gennari: A. Colombi Ferretti, in Porzio, Zeri 1989, v. 1, pp. 466-467.
  • [33] Olio su tela, cm 98x118 (Fototeca Zeri, inv. 159829).
  • [34] Jordan, Cherry 1995, p. 62.
  • [35] Olio su tela, cm 61x75 (Fototeca Zeri, invv. 159921, 159926, 159927). F. Zeri, in Forma vera 1985, pp. 223-224.
  • [36] Natura morta con vaso di fiori e frutta, olio su tela, cm 77,5x90,5, già Roma, mercato antiquario (Fototeca Zeri, invv. 159735-159737).
  • [37] Perizia 21 marzo 1998 (Fototeca Zeri, coll. NM 19/4/2-4).
  • [38] Olio su tela, cm 83x115, collezione privata (Fototeca Zeri, invv. 159482, 159483).
  • [39] Perizia 2 settembre 1997 (Fototeca Zeri, coll. NM 17/3/9-10). Questa perizia è già stata segnalata in Mambelli 2014, p. 336

 


Pubblicato in La natura morta di Federico Zeri, a cura di Andrea Bacchi, Francesca Mambelli, Elisabetta Sambo, Bologna, Fondazione Federico Zeri, 2015, pp. 15-35