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di Marco Riccòmini

penitent’s robes

Si può ancora giudicare dall’abito oppure, come dicono gli inglesi, «you can't judge a book by its cover»?

L’abito non fa il monaco, recita l’adagio. E neanche la monaca, verrebbe da aggiungere in questi giorni a New York. Nonostante da monache (diaconesse, vescove, cardinalesse e persino papesse) siano vestiti dai più creativi stilisti del momento, i manichini in mostra al Metropolitan Museum of Art di New York (sia sulla Quinta Strada, sia al Met Cloisters) non hanno nulla di sacrale (Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imagination, fino all’8 ottobre). Non confonde le idee neppure la suggestiva ambientazione nella Mary and Michael Jaharis Galleries for Byzantine Art, condita da ipnotica musica liturgica, perché divise e simboli cattolici sono qui piegati da mani esperte in un gioco ambiguo e sensuale. Eppure l’abito riveste ancora la sua importanza se non la sua sacralità, come ha mostrato al pubblico il creatore del più diffuso social media in udienza al Senato statunitense indossando quelle che The New York Times ha definito le penitent’s robes, ovvero cospargendosi le ceneri sul capo (Vanessa Friedman, Mark Zuckerberg’s I’m Sorry Suit, 10 aprile 2018). Accettando, insomma, le regole del gioco, anche se non piacciono (e chi ha esperienza d’azienda conoscerà il significato del termine «dress code»; leggasi abito da ufficio oltremanica). Ma allora si può ancora giudicare dall’abito oppure, come dicono gli inglesi, «you can't judge a book by its cover» (non possiamo giudicare un libro dalla sua copertina)? Prima di rispondere, la domanda da porsi sarebbe: quanti libri avete letto nell’ultimo anno?